Il campione, di David Storey, pubblicato per la prima volta nel 1962 e riproposto cinquant’anni dopo dalla casa editrice 66th and 2nd, è considerato uno dei migliori romanzi sullo sport di sempre.
La testa contro le chiappe di Mellor, aspettavo che la palla gli sbucasse tra le gambe. Fu troppo lento. Mi stavo allontanando, quando il cuoio rimbalzò tra le mie mani e, prima che riuscissi a passare, una spalla mi colpì la mascella. I denti sbatterono con tale violenza che rimasi stordito, e tutto si fece nero.
L’incipit de Il campione ci porta direttamente sul campo, nel pieno di una mischia. Siamo agli inizi degli anni ’60, e nell’Inghilterra del Nord la Rugby League ha permesso lo sviluppo professionistico del rugby a 13 (la versione a 15, praticata maggiormente a Londra e nel sud del paese, era rigorosamente dilettantistica. Il divieto di percepire compensi e rimborsi impediva, di fatto, ai proletari di giocare lasciando il campo libero ad atleti provenienti dai ceti borghesi).
Si scoprirà presto che Artur Machin, protagonista de Il campione, non è propriamente innamorato del rugby. Lo ha praticato durante la scuola, per poi abbandonarlo senza rimpianti. Quando però inizia a lavorare come operaio in fabbrica, scopre che un collega, giocando a rugby nella squadra locale, ottiene numerosi vantaggi, non solo economici.
È per questi vantaggi che Art desidera entrare in squadra. Ci sono delle difficoltà, prima bisogna ottenere un provino e poi mettersi in mostra nella seconda squadra, ma il protagonista si fa strada abbastanza velocemente. In breve tempo inizierà a frequentare la “crema” della città, potrà acquistare un’automobile e altri generi di lusso.
Il campione ha un ritmo veloce, con descrizioni avvincenti e realistiche delle scene di gioco e dialoghi serrati fuori dal campo. Ma trasmette anche molta freddezza. Quella esterna, tipica del clima dell’Inghilterra del nord, e soprattutto quella interiore.
Arthur all’inizio della storia vive a pensione dalla signora Hammond, una decina di anni più grande di lui, vedova e con due figli. Anche quando inizia a guadagnare bene, non cambia alloggio, anzi si lega sempre di più alla donna, ma i due non riusciranno mai a capirsi davvero.
Allo stesso modo, Arthur faticherà a comunicare anche con gli altri personaggi de Il campione: i compagni di squadra, i proprietari del club, i propri genitori.
Oltre che sullo sport, Il campione è un romanzo sulla ricerca delle motivazioni dei propri comportamenti. Da abile narratore, David Storey non ci fornisce risposte dirette. Ci porta a crederci più superficiali di quanto riteniamo essere. Forse, quando agiamo, non siamo spinti da riflessioni esistenziali o valutazioni che coinvolgono la collettività, ma solo da un’istintiva tendenza verso il profitto personale.
Storey, però, ci suggerisce anche dell’altro. E cioè che c’è un momento in cui mettere da parte ogni domanda e andare semplicemente avanti, verso un’altra touche, un’altra mischia, un’altra corsa.
Mi feci fasciare le caviglie, mi vestii, e mi infilai i denti.
Un anno dopo la pubblicazione de Il campione, il regista Lindsay Anderson, esponente del “Free cinema” inglese, trasportò la storia sul grande schermo. A interpretare il protagonista è il noto Richard Harris, a sua volta promettente giocatore di rugby in gioventù. Il film non ottenne grande successo al botteghino, ma è stato inserito dal British Film Institute tra le cento migliori pellicole britanniche dello scorso secolo.