Questa è una bella storia, perché racconta di un percorso che si compie insieme, tra difficoltà e sofferenza.
La raccontiamo, eliminando i riferimenti privati e specifici, perché l’auspicio è che possa servire da esempio e che magari ci sia chi, in qualsiasi parte di un ospedale o clinica del Paese, leggendo queste righe si riconosca anche solo in una minima parte.
E’ la storia di una donna in cura per un cancro al seno in un ospedale siciliano.
E’ grata al personale, medico e paramedico per la professionalità, l’umanità e la competenza che ogni giorno mettono al servizio dei pazienti.
La sua quindi non è una lamentela, ma un invito al professore che dirige l’unità operativa, ad effettuare quegli accorgimenti che fanno la differenza tra un reparto di ospedale e un percorso di umanizzazione nell’accogliere i pazienti.
Il motivo che ha spinto questa donna a scrivere risiede nel profondo disagio che avverte ogni volta che si avvicina il giorno della chemioterapia, quando dovrà appunto recarsi in ospedale.
“ Noi malati dobbiamo presentarci entro le XX (orario) per prendere un numerino in base al quale veniamo chiamati per il colloquio con i medici. Questo, di solito, avviene entro due o tre ore, dopodiché inizia la lunga attesa per la seconda chiamata, quella che annuncia l’arrivo del proprio turno. Ognuno di noi, mediamente, attende cinque o sei ore prima di entrare in reparto per la seduta di chemioterapia.
Queste ore le trascorriamo seduti uno accanto all’altro, in un’atmosfera greve e carica di sofferenza. C’è chi ha bisogno di condividere la propria esperienza, e allora ecco i racconti dettagliati di interventi, cadute di capelli, cateteri.
C’è di ha bisogno di silenzio, di pensare al bello, e allora cerca soluzioni alternative: l’ultima sedia in fondo al corridoio, un paio di auricolari.
Ma la realtà rimane, e la realtà è fatta di interminabili ore da trascorrere nell’immobilità, senza potersi allontanare, poiché non si sa quando arriverà il proprio turno. Lo scopo di questa mia lettera non è esprimere lamentele (immagino che la macchina organizzativa non sia cosa semplice), ma soltanto chiederle di voler considerare una qualche soluzione a tale problema.
Una turnazione tra la prima e la seconda parte della mattinata; l’utilizzo di cicalini da
consegnare a noi pazienti sì da poterci allontanare (magari anche per recarci
al bar) ed essere avvisati quanto sta arrivando il nostro turno, della
filodiffusione con musica classica.
Non so se ciò che sto proponendo sia
realizzabile, ma so per certo che man mano che si avvicina il mio prossimo
appuntamento con il farmaco, la cosa che
più mi sconvolge è il pensiero della giornata che trascorrerò in quella sala
d’attesa.
Questa malattia è un mostro: si ha bisogno di curare il corpo, ma si ha altrettanto bisogno di curare lo spirito, di mantenerlo puro, elevato, di non lasciarsi prendere dallo sconforto, dalla paura, e le assicuro che quelle interminabili ore trascorse ad aspettare minano la parte più profonda della nostra anima”.
Parole profonde, che scaturiscono dalla dolorosa sensazione di essere pronti ad affrontare e combattere il male ma di non voler per questo rinunciare a tutto il resto, ad un ambiente che accoglie e nutre, che non respinge, che non isola.
Chi ha avuto un familiare sottoposto a chemioterapia, o chi si è sottoposto a queste cure, conosce bene ogni dettaglio di questa lettera, ogni malessere evitabile.
Sa bene quanta sofferenza porti essere diventati un “numero”, o le attese non necessarie, le camere troppo affollate, il rumore là dove si cerca il silenzio.
I dettagli diventano parte essenziale della battaglia, diventano armi al fianco del paziente e del medico stesso.
Le parole di questa donna sono arrivate là dove dovevano arrivare.
Il professore l’ha letta, si è soffermato sulle singole emozioni e parole ed ha chiesto d’incontrarla per risolvere insieme quei problemi che anche lui aveva riscontrato.
Il medico e la paziente si sono incontrati, si sono “ritrovati” nel luogo senza tempo e spazio dell’umanità e dell’amore.
Da quella lettera sono scaturiti tanti semi che porteranno frutti.
Non sappiamo quando ma siamo certi che ci saranno i turni e non ci saranno attese interminabili, ci sarà la possibilità di un’attesa in silenzio o ascoltando musica classica.
Ci sarà la possibilità di curare il corpo senza dover per questo far soffrire anche l’anima.
Ecco perché abbiamo voluto raccontare questa storia. Perché nel bene o nel male ogni nostro gesto è un esempio, un seme. E noi tifiamo per i semi del bene.
Rosaria Brancato