Oggi le nostre colline sono ancora più deturpate. Ma non dalle ingombranti superfetazioni edilizie che vi distendono sopra il loro opaco manto di cemento, e neppure dalle discariche di materiale di risulta che vi proliferano indisturbate. Lo scempio, stavolta, ha raggiunto il cuore delle colline, minandole alle fondamenta, sicché riesce difficile continuare a vederle, sia pure grazie al ricordo, com’erano prima.
Oggi le colline hanno cambiato forma. Il loro profilo, da morbido ed elegante, si è fatto spigoloso; somigliano, per certi versi, a cipigli corrucciati che guardano verso di noi con atteggiamento di minaccia. Quale metamorfosi hanno subito dal giorno, ormai lontano, in cui le abbiamo ammirate dispiegarsi come dolci onde sulla città di cui cullavano il sonno prima ch’essa si risvegliasse, accarezzata dalle prime luci dell’alba! Sono cambiate, eccome, le nostre colline da quel giorno perso nelle nebbie del tempo.
Guardavo verso quelle colline, oscurate dalle ombre della sera, quando un frastuono di sirene e lo scorrere rapido di autocisterne spezzò a un tratto la serena monotonia di corso Garibaldi. Di fronte, il profilo dello Stretto segnava il passo dell’isola portando con sé un pungente vento di tramontana il cui soffio screpolava le labbra. Rientravo da un pomeriggio come un altro, intabarrato nella mia giacca a vento blu imbottita, la testa protetta da un generoso cappuccio di lana, pregustando già il consolante tepore domestico.
Trasportato come per mano da quel fragore, notavo con crescente apprensione che esso seguiva il mio identico percorso. Di punto in bianco, come se ci fossi giunto su un tappeto volante, mi ritrovai dinanzi al grande portone di legno del palazzo d’epoca che dava sulla via laterale dov’è la casa che abito.
Due automezzi a sirene lampeggianti vi stazionavano, intorno a esse un moto concitato di vigili del fuoco ne sgusciava tubi e scale e scalette dirigendosi verso il patio che il portone aperto spalancava alla vista. Ivi, un crocchio di persone concitatamente discorreva, cornice a un viavai frenetico sul quale lingue di fumo imperiose, simili a lugubri vessilli, si snodavano caotiche.
Cosa stava accadendo?
Telefonino in mano, chiamo subito amici che in quel palazzo abitano, preoccupato che sia loro successo qualcosa. Confortante, una voce normale mi risponde. Lo invito a raggiungermi sotto, qualcosa di grave avviene all’insaputa degli stessi condomini di uno stabile il cuore nascosto del quale fiamme proditorie stanno indisturbate divorando.
Poi, tutto scorre a precipizio. I pompieri che forzano l’appartamento, un primo piano ermeticamente chiuso dal quale si sprigionano nuvole di fumo acre e insopportabile, un rumore di vetri infranti, un cagnolino che svicola tra le gambe dei presenti cercando di guadagnare un’insperata uscita.
Illeso, come un piccolo miracolo esploso da tanta e desolata tragicità, attraversa a piccole zampate il corridoio dell’androne. “Bloccate l’uscita” grida qualcuno, per evitare che la bestiolina, in visibile stato confusionale, attraversi la strada rischiando d’essere travolto.
Trascorre ancora qualche minuto, o qualche ora non si sa bene. Il tempo, in certi casi, non ha peso, somiglia a una delle tante nuvole di fumo che continuano a sollevarsi dal tetto di un palazzo dove si sta consumando una delle tante, l’ennesima tragedia della solitudine.
Qualcuno ha chiamato il 118. Dopo un imbarazzante – quanto inspiegabile – tira e molla, finalmente la prima autoambulanza, giunta senza medico, viene rimpiazzata da un automezzo medicalizzato.
Le operazioni
si protraggono mentre mi avvio verso casa. Non per sbarazzarmi di un peso
fastidioso, semplicemente per sgombrare il campo, alleggerire la platea degli
spettatori curiosi e inconcludenti.
Ma il mio pensiero è sempre là. Alla donna sola che viveva in
quell’appartamento con il suo cagnolino, quello stesso che era sgattaiolato tra
le nostre gambe.
Apprendo poco più tardi che, come purtroppo era prevedibile, è stata ritrovata
riversa sul pavimento della sua stanza da letto, carbonizzata. Tra le ipotesi
al vaglio degli inquirenti una sigaretta accesa finita in terra durante
l’addormentamento. O una termocoperta andata in cortocircuito. O una stufa. O
cosa importa, in fondo?
La sola cosa che importa è che di tutto questo ci si accorge tardi. Gli stessi condomini non registrano subito la presenza del fumo, l’odore acre della combustione, il fiato invisibile di una catastrofe imminente.
Si vive così, d’altronde, immersi a nostra volta in una nuvola di fumo che nasconde tutte le altre nuvole di fumo che si liberano in cielo, lasciandosi alle spalle esistenze che si estinguono in un tocco d’ali, così come da un tocco d’ali son venute al mondo.
Succede nelle città più che nei piccoli centri. Ognuno nella sua nuvoletta, insensibile a quanto gli accade intorno, pretende di riempire la propria vita con i riti di sempre, le piccole angosce e le miserabili gioie che costellano giorni che fluiscono via sempre più uguali. E invisibili.
Invisibili come Anna Alibrandi, 70 anni, scivolata nel silenzio una sera più fredda delle altre.
Fredda come l’indifferenza che, quella sera, l’ha uccisa nel rogo della sua abitazione.