Nell’ultimo secolo, dopo il catastrofico sisma del 28 Dicembre del 1908, lo Stretto di Messina è stato oggetto di studio da parte di molti scienziati venuti da tutto il mondo per capire la complessa conformazione geologico strutturale dell’area. Ancora oggi abbiamo più di una teoria riguardo la nascita e l’evoluzione dello Stretto durante le varie ere geologiche. Tra queste quella che può essere ben applicata alla realtà dello stretto attribuisce a tale area una struttura a “Graben”. Tradotto nel vocabolario geologico il termine “Graben” indica una fossa oceanica tettonica, ossia una porzione di crosta terrestre che è sprofondata a causa dell’azione combinata di un sistema di faglie normali (o dirette) in regime tettonico di tipo distensivo.
In poche parole ciò vuol dire che lo stretto di Messina non è altro che una depressione di natura tettonica formatasi in 125mila anni, grazie al ripetersi di grandi terremoti che hanno gradualmente allontanato la punta nord-orientale della Sicilia dalle coste della Calabria meridionale, e dal resto del continente. Di grande importanza sono le caratteristiche rocciose e litologiche dei rilievi che contornano lo stretto. Non è un caso se i Peloritani (riva siciliana) che il massiccio dell’Aspromonte (riva calabrese) presentano lo stesso tipo di conformazione. Questo sta ad indicarci che in epoche passate la Sicilia era unita al resto del continente, avvalorando cosi la teoria che vede il “Graben” come struttura dominante della zona.
Trovandosi nel centro del Mediterraneo lo Stretto è ubicato in una zona molto instabile dal punto di vista tettonico. Infatti proprio qui convergono ben tre placche continentali, ognuna di esse ha un proprio movimento che le porta a scontrarsi formando cosi un sistema di faglie normali, lungo complessivamente 370 km, che in vari studi (Monaco, Tortorici, Gasparini, Anderson, Jackson,..) è stato denominato come “Siculo-Calabrian Rift zone”. Questo complesso sistema di faglie si estende in modo continuo dalle coste tirreniche calabresi, prolungandosi attraverso lo Stretto di Messina, lungo la costa ionica della Sicilia fino a raggiungere gli Iblei orientali (Sicilia sud-orientale) e l‘area attorno l‘isola di Malta.
L’orientamento del “Rift” è ben documentato dai meccanismi focali di numerosi e violenti terremoti crostali che nei secoli scorsi hanno colpito la Sicilia orientale, in particolare la zona iblea, la costa attorno Catania (1169-1693) e lo Stretto di Messina (394-1908), come la Calabria meridionale, specie la fascia aspromontana (su tutte la crisi sismica del 1783). Proprio sotto lo Stretto di Messina passano diverse faglie di carattere distensivo, collegate direttamente al cosiddetto “Siculo-Calabrian Rift zone”. Tali strutture tettoniche sono caratterizzate da particolari movimenti orizzontali dovuti ai continui spostamenti delle placche continentali.
Purtroppo molte di queste faglie sono tuttora sconosciute dai geologi poichè si trovano a circa 7-8 km sotto il fondale dello Stretto, per questo non possono essere monitorate, a differenza di quanto avviene in California, con la famosa faglia di San Andreas che scorre in superficie. Data l’impossibilità di studiarla e la quasi totale assenza di segni di rottura lasciati in superficie durante il terribile terremoto del 1908 la faglia che continua a modellare e deformare la morfologia dello Stretto di Messina viene anche definita come una faglia di tipo “cieca”, che agisce in profondità senza riuscire ad emergere in superficie. Un vero e proprio rompicapo per i geologi e i sismologi che da decenni continuano a studiare l’evoluzione geologica dello Stretto di Messina.
Il violento terremoto che all’alba del 28 Dicembre del 1908 distrusse le città di Messina e Reggio Calabria fu originato da un’improvvisa rottura della faglia dello Stretto (che superò la soglia di stress, rompendosi), nota anche come la faglia di “Messina-Giardini“, visto la sua estensione dal comprensorio ionico messinese fino alla punta di Capo Peloro. Tutta l’energia potenziale accumulata nel corso dei secoli dal movimento delle placche continentali si è rapidamente scaricata tutta in un colpo, producendo una violentissima scossa tellurica, con una magnitudo stimabile attorno i 7.1 – 7.2 Richter, che ha avuto un ampio risentimento in tutto il sud Italia. Lo scuotimento, stando alle cronache del tempo, raggiunse persino la costa albanese e l’isola di Malta, segno di un sisma ad altissimo potenziale energetico. Pochi istanti prima della scossa micidiale, lungo il tetto della faglia della faglia “Messina-Giardini”, si è verificato una sorta di grande “strappo” che in meno di 4 secondi attraversò la costa ionica messinese risalendo fino allo Stretto e alle città di Reggio Calabria e Messina, dove si registrarono i massimi danneggiamenti, mentre sul reggino e sul messinese ionico i danni furono più limitati.
Durante il terremoto le coste della Sicilia e della Calabria, improvvisamente libere di muoversi, si allontanarono di colpo di circa 70 centimetri. Contemporaneamente, grazie a una ricerca condotta dall’istituto geografico militare italiano nel 1909, qualche mese dopo il disastro, si scopri che la costa calabrese sprofondò di 55 centimetri rispetto al livello del mare, mentre quella siciliana arrivò a meno 75 centimetri. Studi successivi evidenziarono come la notevole “subsidenza”, ossia lo sprofondamento del suolo, sia interpretabile per mezzo di una faglia normale o (meno probabile) un sistema a doppia faglia che scorre parallelo all’asse dello Stretto.
Alcuni importanti sismologi ipotizzano per l’evento del 1908 un meccanismo di rottura secondo un sistema sismogenetico costituito da due faglie disposte in una struttura a “Graben” al di sotto dello Stretto. In realtà fino ad oggi la questione che ritiene il sisma del 1908 come caratteristico dell’area dello stretto rimane ancora aperta. Molti studiosi rimangono ancora titubanti nell’applicare la teoria del terremoto caratteristico, con tempi medi di ritorno dell’ordine dei 1000 anni, visto la complessa struttura geologica e i numerosi segmenti di faglie presenti nel sito.
Nonostante queste incertezze numerosi studi confermerebbero con un certo margine di affidabilità l‘evento del 1908 come tipico per l‘area dello Stretto, indicando per questi terremoti di alta magnitudo un periodo medio di ritorno che per nostra fortuna (secondo delle stime non definitive) è compreso tra i 600 e i 1500 anni. Per risalire ad un evento sismico paragonabile, per forza e per l’estensione della zona vulnerata, a quello del 1908, lungo l’area dello Stretto di Messina, bisogna andare indietro di parecchi secoli. Stando ai dati raccolti sul campo e in letteratura l’ultimo evento tellurico catastrofico che ha colpito l’area dello Stretto risalirebbe al IV secolo D.C., intorno all’anno 374. In quell’anno un violentissimo terremoto, seguito da uno sciame di grandi scosse piuttosto lungo, devasto le coste dello Stretto, da Reggio a Messina, causando degli improvvisi spopolamenti in entrambi le rive, spesso indotti dai gravi danni di un fenomeno catastrofico che ha ridotto, in modo anche drastico, la popolazione.
Diverso è il discorso per i terremoti di moderata o forte intensità, 5.0-5.5 Richter (oltre la soglia del danno), che hanno un periodo medio di ritorno molto più brevi, che può variare dai 75 ai 120 anni circa. Molto più frequenti sono i sismi di moderata energia, ossia con una magnitudo inferiore ai 4.0-4.5 Richter, che solitamente possono verificarsi ogni 28-30 anni lungo l’area dello Stretto. Anche se è vero che un sisma cosi catastrofico come quello del 1908 si potrà ripetere fra circa 500-1000 anni non si può escludere che al contempo, un terremoto meno forte di quello del 28 Dicembre 1908, ma al tempo stesso ben oltre la soglia del danno, tipo un 5.6-5.8 Richter, possa colpire e far tremare lo Stretto di Messina entro i prossimi decenni, rischiando di provocare danni a cose e persone.
Proprio per questo ci auguriamo che l’attenzione (anche mediatica) in merito al rischio sismico rimanga sempre molto alta. Per favorire ciò servirebbero ulteriori passi in avanti nella prevenzione e un coinvolgendo deciso di gran parte della popolazione esposta che per il momento sembra ignorare il rischio (il fatalismo all‘italiana). Solo con la prevenzione (basta dare un’occhiata al Giappone, in California o anche a Taiwan o paesi come il Cile) si potrà evitare un domani di dover nuovamente assistere a scenari disastrosi che hanno caratterizzato la storia del nostro passato.