Da Alberto Randazzo. professore associato di Istituzioni di diritto pubblico e Presidente dell’Azione cattolica diocesana, riceviamo una riflessione sul Sinodo e il ruolo dei laici.
Conclusa la prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (tenuta dal 4 al 29 ottobre 2023), sembra particolarmente opportuno sottolineare qualche passaggio della relazione di sintesi. Il profilo che, alla luce del mio “status”, mi piace mettere in evidenza è quello relativo al ruolo dei fedeli laici, ai quali è stata dedicata non poca attenzione nel documento in discorso.
Il fatto che dal Concilio Vaticano II ad oggi, costantemente, ad intervalli regolari, vi siano state varie forme di sollecitazione volte a valorizzare il ruolo dei laici è forse il segno più eloquente che gli insegnamenti conciliari sul punto non siano stati del tutto attuati e siano quindi rimasti un po’ inascoltati. Si potrebbe dire che è anche per questo aspetto che il Concilio appare attuale… perché è ancora, almeno in parte, da attuare.
La questione non è affatto trascurabile. Come si sa, i fedeli laici rappresentano parte integrante della Chiesa (direi, “sono Chiesa”), essendo una delle “gambe” su cui si regge il «corpo mistico di Cristo» (secondo la nota definizione di Lumen gentium, 7 ss.). La Chiesa (da non confondere con la gerarchia ecclesiastica) è infatti costituita da pastori, religiosi e laici, tutti accomunati – in forza del battesimo – “dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo” (Lumen gentium, 31). In estrema sintesi, spetta ai laici l’altissimo (e ad essi riservato) compito di ordinare le “cose temporali”, nelle quali sono immersi, secondo Cristo (cfr., ancora, Lumen gentium, 31). Essi, infatti, che sono “nel mondo” come “l’anima è nel corpo” (cfr. Lettera a Diogneto), hanno la grande responsabilità – che deve tradursi in impegno concreto – di vivere la propria fede in modo “incarnato” facendo proprie “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” (Gaudium et spes, 1).
Non è possibile indugiare sul punto (da me maggiormente indagato in altre sedi), ma ritengo che da questi pochi richiami si possa cogliere l’importanza per un fedele laico di vivere la propria condizione di vita in ogni ambito (famiglia, lavoro, politica, etc.) in modo da non tradire questa funzione assegnatagli dal Concilio Vaticano II e più volte ribadita (si pensi, ad es., a Christifideles laici, esortazione apostolica scritta da Giovanni Paolo II nel 1988). I laici sono quindi chiamati ad un costante impegno di apostolato e di «partecipazione […] alla missione della Chiesa» (v. Apostolicam actuositatem, p.ti 2 ss.).
Anche in questi giorni, come si diceva, nella relazione sopra citata (v. p.to 8), si sofferma l’attenzione su tale compito, da svolgere anche nell’“ambiente digitale”, da noi tutti particolarmente frequentato ed in grado di produrre rilevanti ricadute anche sul piano «dell’economia e della politica», della cura del creato e della «partecipazione alla vita pubblica». Si ricorda, quindi, l’importanza della testimonianza cristiana alla quale anche i giovani sono chiamati.
Significativamente, si considera «indispensabile» il contributo dei laici «per la missione della Chiesa», tanto che appare necessario curare «l’acquisizione delle competenze necessarie». A quest’ultimo proposito, mi sia consentito porre l’accento sul rilievo che si deve riconoscere alla formazione (e all’autoformazione) dei fedeli laici e, pertanto, a quelle “agenzie educative” e, in generale, a quelle “realtà associative” che si impegnano in tal senso (l’Azione Cattolica Italiana, da 156 anni, è una di queste); esse vanno sostenute ed incoraggiate non certo per il bene di singoli ma per quello della stessa Chiesa e, direi, della società intera. Occorre infatti rilevare che fedeli laici ben formati possono (anzi, devono) anche offrire un significativo contributo, in generale, al bene comune, mettendosi in stretto dialogo con i non credenti e con coloro che professano altre fedi religiose, per realizzare – fra tutti – una virtuosa collaborazione che sia al servizio dell’uomo e della donna di questo tempo.
Ecco perché, come prosegue la Relazione, «i carismi dei laici […] devono essere fatti emergere, riconosciuti e valorizzati a pieno titolo». Occorre, però, che sia sempre preservato quell’equilibrio che deve sussistere tra pastori e laici, venendo rispettata la reciproca “competenza”, perché le varie “membra” sono chiamate a fare ciascuna la propria parte (cfr. 1Cor 12,27).
Infatti, si deve evitare che i «presbiteri facciano tutto e i carismi e i ministeri dei laici vengano ignorati o sottoutilizzati»; al tempo stesso, i laici non devono clericalizzarsi o farsi clericalizzare (anche questo è un punto trattato nella Relazione). In poche parole, come a me piace dire, i laici sono chiamati a fare i laici e non i “mezzi preti” o le “mezze suore” (cfr. L. Diotallevi).
Altrimenti, una di quelle “gambe” a cui prima si faceva riferimento sarà ferita, zoppicante e tutta la
Chiesa soffrirà (cfr. 1Cor 12,26). Inoltre, nella Chiesa ci si deve predisporre nella prospettiva di sapere rinnovare le relazioni e favorire «cambiamenti strutturali» che possono consentire di «accogliere meglio la partecipazione e il contributo di tutti» (anche dei laici, ovviamente).
Nella Relazione, si fa poi un opportuno richiamo alle aggregazioni ecclesiali, «segno prezioso della maturazione della corresponsabilità di tutti i battezzati» (p.to 10). Esse hanno un indiscusso valore che viene ben chiarito nel documento e si sottolinea che «sono spesso modelli di comunione sinodale e di partecipazione in vista della missione» (non a caso, il 30 aprile 2021, papa Francesco ha definito l’Azione Cattolica una «“palestra” di sinodalità»).
Tuttavia, nella Relazione, si invita ad «approfondire» (il che quindi richiede uno studio ed una particolare attenzione in merito) le modalità che facciano sì che le «associazioni laicali […] possano mettere i loro carismi a servizio della comunione e missione nelle Chiese locali». A tal proposito, si chiede «l’istituzione e
una più precisa configurazione delle Consulte e dei Consigli» ai quali fanno parte i rappresentanti
del variegato mondo dell’associazionismo religioso in modo da «promuovere relazioni organiche
tra queste realtà e la vita delle Chiese locali».
In conclusione, dalla specifica trattazione che nella Relazione è stata dedicata al laicato, si ha conferma che molta strada è ancora da percorrere. L’augurio è che lo sforzo di riflessione che, anche a tal proposito, si sta facendo nel processo sinodale non rimanga senza effetto e fine a se stesso. Altrimenti, avremo solo accumulato altra “carta” sulla nostra scrivania.
Per evitare ciò, come accennato, occorre che tutte le componenti della Chiesa (che sopra ho ricordato), in chiave di corresponsabilità e in spirito di comunione e di fraternità, facciano la propria parte. Al riguardo, da credente, non posso che coltivare la virtù della speranza e, al tempo stesso, rinnovare l’impegno.
Alberto Randazzo
(Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico e Presidente dell’Azione cattolica diocesana)