Non erano bambini, ma comunque poco più che adolescenti. Sedevano insieme tra i banchi di scuola ma uno da vittima, l’altro da carnefice. Uno è diventato adulto cercando di combattere il ricordo di un periodo di umiliazioni e paura. L’altro oggi è imputato, affronta il processo e attende la sentenza, a neppure 20 anni di età.
Si chiama bullismo, ma si scrive percosse e minacce. E forse, com’è stato per lo stalking, anche questo genere di fenomeno meriterebbe un ripensamento per introdurre un reato specifico. E misure per formare gli stessi insegnanti ad affrontarlo adeguatamente.
Perché l’ultima vicenda di bullismo arrivata nelle aule di giustizia messinesi, nello specifico davanti al giudice di pace dove un oggi ventenne è imputato, non racconta soltanto delle umiliazioni subite dalla vittima, ma anche dell’incapacità dei loro insegnanti di difenderlo.
Proprio ieri è stato sentito uno dei tre insegnanti che avevano assistito ad alcune delle angherìe denunciate. E dalla sua testimonianza, come da quella degli altri due colleghi che non hanno riferito in aula ma hanno rilasciato il verbale durante le indagini, sembra venir fuori una sottovalutazione del problema. Proprio il ragazzino bullizzato ha infatti riferito di essere stato invitato da docenti a minimizzare tutto quello che gli stava accadendo.
Lui, invece, esausto e spaventato che le cose potessero prendere una piega ancora peggiore, ha avuto il coraggio di raccontare tutto ai genitori e poi alla Polizia, assistito dal suo legale, l’avvocato Filippo Mangiapane.
“Credo che io debba avere la possibilità di condurre una vita serena e non debba preoccuparmi di uscire di casa con la paura di essere picchiato” ha detto il ragazzo ai poliziotti, nel 2017. Era ad un passo dall’esame di stato, mancavano poche settimane, e ha rischiato di vederlo sfumare: la paura gli toglieva il fiato, il sonno, la concentrazione.
L’episodio che lo convince a chiedere aiuto risale proprio a maggio di quell’anno. Il bullo gli versa una bottiglietta d’acqua in testa, in mezzo ai banchi, davanti a tutti, nella scuola superiore tecnica cittadina che frequentano.
“Io sono mingherlino, non potrei mai affrontarlo”, racconta A. ai poliziotti e al giudice, al processo. Eppure, quel giorno, all’ennesima angherìa cerca comunque di reagire,e fa lo stesso col compagno, che per tutta risposta gli mette le mani al collo e per poco non lo soffoca: “Mi stringeva fortemente con la mano, fino a dare una sensazione di soffocamento. Ero immobile, impaurito, ma lui spingeva sempre più forte con la mano alla gola, fino alla parete, e urlava: ti spacco tutto, mi puoi mandare chi vuoi, non ho paura di nessuno, se viene tuo padre spacco pure lui. E continuava ad urlare, anche mentre il professore e i compagni lo trascinavano fuori.”
Episodi come quelli, ha raccontato A, ne erano già capitati diversi. Ingiurie, minacce di non farsi vedere in giro, promesse a darle anche al padre. Poi le mani addosso, addirittura intorno al collo. Il primo tentativo di soffocamento risale a due anni prima, racconta la vittima, ed era avvenuto anche allora sotto gli occhi di un insegnante. Qualcuno di loro aveva quanto meno redatto una nota nel registro della scuola. Ma denunce nessuna, provvedimenti disciplinari severi al bullo neppure tanto meno un supporto psicologico adeguato al ragazzino vittima.
Il processo va avanti, si tornerà in aula ad ottobre per sentire altri testimoni . L’imputato è difeso dall’avvocato Salvatore Bandiera.