Il nuovo film di Duncan Jones, Mute, disponibile su Netflix, è un prodotto pregiato. Scenograficamente spettacolare, richiama ambientazioni fantascientifiche della tradizione più canonica (Blade Runnersopra tutti), ma si concentra su un particolare di non poco conto: il protagonista è muto.
Ambientato in una Berlino futuristica, la trama ruota intorno alla scomparsa di una ragazza, Naadirah, e al tentativo del fidanzato, Leo, di ritrovarla. Un tentativo disperato: lui è muto, non riesce a comunicare con l’ambiente circostante. A complicare la situazione, la città si presenta come un labirinto che non lascia via di scampo: neon, insegne luminose, macchine volanti, meticciato portato all’estremo, promiscuità sessuale, violenza gratuita e costumi ultra moderni.
Leo, interpretato da un eccezionale Alexander Skarsgård, proviene da una famiglia amish, la comunità religiosa che pretende di vivere lontano dal mondo moderno, seguendo usi e costumi antichi e dedicandosi a mestieri tradizionali. L’incomunicabilità tra lui e il mondo iper-moderno è, quindi, ancora maggiore. (È senz’altro notevole l’introduzione dell’elemento religioso in un film di fantascienza, operazione quanto mai rara nel cinema contemporaneo, dato che il mondo futuro è sempre illustrato come post-religioso e tendenzialmente ateo).
Il tema centrale del film è proprio questo, l’incomunicabilità. La barriera non è soltanto linguistica, ma anche culturale. La distanza tra il protagonista e il mondo che lo circonda è orizzontale (l’impossibilità di comunicare linguisticamente) e verticale (la diversità abissale di mondi culturali paralleli ma non dialoganti).
Sembra proprio questa la condizione delle odierne metropoli cosmopolite: crogiolo di culture e di lingue, di etnie e di costumi, moderne Babele in cui ci si perde e ci si ritrova dopo un pellegrinaggio lungo vicoli bui e strade affollate, attraverso vizi inconfessabili e travestimenti esagerati. Mute tratteggia abilmente lo sgomento della modernità liquida che abita eminentemente nelle grandi cosmopoli.
La scena del film che sembra racchiudere questa condizione di isolamento e solitudine è l’incontro tra il protagonista e la madre di Nadiraah, una donna araba che non parla inglese né tedesco, e che quindi non è compresa da Leo. Il tentativo di comunicare vicendevolmente è infine sormontato dall’utilizzo sapiente di gesti e sguardi, ma ciò non elimina il dramma di fondo.
L’indifferenza degli abitanti della città si mescola alla promiscuità sessuale e alla impossibilità di discernere il sesso di alcuni protagonisti. Soltanto un elemento sopravvive a una simile condizione babelica, e cioè l’amore del protagonista verso Nadiraah. Ed è, questo, un monito per noi tutti: senza l’amore di un uomo verso una donna, o di una madre verso un figlio, l’immensa e titanica condizione cosmopolitica delle grandi città rischia di divorare l’anima di tutti e di ciascuno.
Il caos sembra non prevalere alla presenza di una forza sotterranea e potente come l’amore. Mute pare suggerire che il nostro compito debba essere la custodia dell’umanità sempre e comunque, specialmente in condizioni ostili quali lo sconcerto e l’avvilimento dei labirinti prometeici delle metropoli. La fantascienza, in questo caso, indica la strada.