Un’interessantissima ricognizione circa uno degli svariati privilegi vantati dai Messinesi rivela tracce del sacerdozio greco-romano nelle antiche prerogative del clero messinese.
Tutto si basa sul cosiddetto “privilegio di Appio Claudio” ovvero un atto del Senato romano creato ad arte* per ricostruire il patto federativo veramente siglato fra Roma e Messina: “I sacerdoti e i suoi cittadini, per l’onore dei Romani, quale capitale della Sicilia possano servirsi della potestà romana”, recita un passo del presunto decreto senatorio. Ci serva da spunto: il tipo di trattato intercorso fra Messina e Roma, fra italici, si richiamava anche a comunanze religiose, perciò non è inverosimile pensare che potessero esserci o possano esserci state delle equiparazioni a livello cultuale (fra l’altro, in quel periodo a Messina governavano i Mamertini, d’origine italica).
Degli eruditi messinesi più famosi, il primo a descrivere queste antiche costumanze del clero zancleo fu Giuseppe Costanzo Buonfiglio in Dell’historia siciliana: nella quale si contiene la descrittione antica et moderna di Sicilia, poi le spiegò e le specificò meglio Placido Reina in Delle notizie istoriche della città di Messina.
Per volontà del Papa, in epoche in cui la Chiesa non aveva ancora fissato abiti specifici per i religiosi, il clero messinese aveva diritto a particolari vesti. Prima che fosse privilegio dei Cardinali, il nostro sommo sacerdote, l’Arcivescovo di Messina, vestiva di porpora anziché di verde, fino al Cinquecento; così in antico spettava alle massime autorità religiose. I Canonici della Cattedrale portavano eccezionalmente mitre di seta bianca fregiate d’oro e calzavano i candidi campagi (le scarpe dell’Imperatore), eredità dei Flamini che indossavano bianchi galeri a calotta e campagi, oltre a indossare cappe paonazze con sotto un bianco rocchetto nel modo in cui i Flamini portavano la toga bianca orlata di porpora (almeno, il maggiore); inoltre avevano diritto a seggi d’avorio e a una scorta di mazzieri – simboli di potere politico – proprio come quegli antichi sacerdoti, e soprattutto entrambi gli ordini erano composti da quindici membri. Sempre nel Capitolo della Cattedrale, ad alcuni canonici era dato un bastone d’argento terminante in un pomo dorato, forse rapportabile al pastorale degli Àuguri etruschi. In generale, la cospicua presenza di porpore rimanda anche all’ordine dei Salii di Marte (che si cingevano di rosso), e non a caso: in origine, Marte era il dio dei Mamertini.
Tutti i pontefici cattolici rispettarono questi costumi e li riconfermarono di volta in volta, difendendoli dagli altri cleri municipali che ne contestavano l’esclusiva, fino a quando il vento della Controriforma non portò quella volontà d’unità nella Chiesa culminata nel Concilio Vaticano II; allora, furono aboliti i drappi e gli accessorî particolari del clero messinese o d’altri luoghi, in nome della ritrovata unità.
Comunque sia andata, le informazioni raccolte sembrano quadrare con quanto è noto dall’antichità quasi perfettamente.
L’ipotesi più suggestiva è che il colore purpureo sia stato conservato dal clero messinese quando passò dall’Ellenismo al Cristianesimo, dunque molto prima che lo si associasse ai Cardinali, e che parimenti il numero dei maggiori prelati sia rimasto di quindici, poiché i Flamini zanclei si erano tutti convertiti e permanevano come collegio.
Questa che abbiamo a voi brevemente presentata, è la splendida continuità e antichità della Chiesa di Messina.
* Vedasi l’articolo “Il mistero dei privilegi dell’antico Senato” del 20/06/19.
Daniele Ferrara