MESSINA – Sul piano economico, sociale e culturale, Messina è una città da ricostruire e la sua provincia non è messa meglio. Se si analizzano i dati del Report povertà 2021-22, a cura di Enrico Pistorino per l’Arcidiocesi e la Caritas messinesi, emerge un quadro oggettivo dei problemi che opprimono la realtà metropolitana. Scrive Domenica Farinella, associata di Sociologia dei progressi economici e del lavoro (Università di Messina): “L’analisi del mercato del lavoro provinciale e dei suoi principali indicatori restituisce una persistente incapacità di creare posti di lavoro, che si unisce a una preoccupante degradazione della qualità dell’occupazione esistente, caratterizzata da informalità, bassi salari, scarsa tutela. Si tratta di una situazione che si è aggravata in seguito alla crisi economica globale del 2007-2008, la quale è arrivata in ritardo rispetto ad altre aree del Paese, ma ha innescato un processo di periferizzazione sociale ed economica che sembra irreversibile. In questo quadro, il Messinese e in particolare la città di Messina hanno registrato alcune tra le performance peggiori”.
In parole povere, la studiosa sviscera ciò che è sotto gli occhi di tutti: una realtà in cui dominano gli affittasi e i vendesi, con case e botteghe che rimangono sfitte, il lavoro nero, lo sfruttamento quotidiano, la tendenza a diventare “periferia” sociale. Farinella inserisce Messina in un “modello mediterraneo di disoccupazione” dagli anni Ottanta in poi che vede scoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro di giovani e donne, “relegandoli a una condizione di inattività forzata oppure al cosiddetto mercato del lavoro secondario, in cui prevalgono le cattive occupazioni malpagate, precarie, informali e poco garantite”.
Aggiunge la professoressa: “Ed è per questo motivo che una caratteristica della disoccupazione italiana, ancora oggi, nonostante tutte le riforme di flessibilizzazione del mercato del lavoro, è l’alto peso percentuale di giovani in cerca di prima occupazione, che non hanno cioè mai lavorato, per i quali inoltre non esiste alcuna forma di tutela, in quanto uno dei requisiti per accedere al sussidio di disoccupazione è proprio l’aver già lavorato con un contratto formale, anche se per un breve periodo”. Il classico gatto che si morde la coda, per usare una metafora abusata.
In questo scenario, come ricostruisce la docente, “la provincia di Messina presenta un dato allarmante:
dal 2004 al 2019 il tasso di disoccupazione totale è cresciuto di 10 punti, passando dal 15,5% del 2004 (un valore che era al di sotto del corrispondente regionale) a 25,9% nel 2019 (quasi 6 punti in più rispetto al valore siciliano). La situazione è ancora peggiore considerando il solo Comune di Messina che nel 2019 presentava un tasso di disoccupazione di poco inferiore al 35%”. Il tutto in quadro aggravato poi dalla pandemia, successiva al crollo del mercato immobiliare (dopo il 2011), alla crisi dell’occupazione nel terziario e delle attività commerciali. Da qui la necessità d’emigrare. Alla città degli impiegati statali e parastatali si è sostituita la città, e la realtà metropolitana, di chi un lavoro spesso non lo cerca più e rimane ai margini.
Mentre giovani e donne subiscono una vera e propria esclusione sociale, assistiamo a una “progressiva precarizzazione del mercato del lavoro”. Come si può, in questo contesto, non poter comprendere la voglia di fuga per sopravvivere? Negli ultimi dodici anni sono andati via dalla Sicilia circa 310.000 abitanti. Di questi, circa 35.000, con un’età compresa tra i 18 e i 39 anni, hanno lasciato la provincia di Messina. Secondo le previsioni dell’Istat, ha ricordato di recente la Cgil, nel 2068 la Sicilia perderà quasi un milione e mezzo di abitanti.
Bassa istruzione, crisi economica e più necessità, dalla casa al reddito: tutto si tiene in un filo sottile. Si legge sempre nel testo della professoressa: “Si rafforza nel 2021, a livello nazionale, la consueta crescita di chi possiede al massimo la licenza media tra coloro che si rivolgono alla Caritas, che passano dal 57,1% al 69,7%; tra loro si contano anche persone analfabete, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. Nelle regioni insulari e del Sud, dove lo ricordiamo c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente all’84,7% e al 75%. Strettamente correlato al livello di istruzione è, inoltre, il dato sulla condizione professionale che racconta molto delle fragilità di questo tempo post pandemico. Nel 2021 cresce l’incidenza dei disoccupati o inoccupati che passa dal 41% al 47,1%; parallelamente si contrae la quota degli occupati che scende dal 25% al 23,6%. Risulta ancora marcato anche nel 2021 il peso delle povertà multidimensionali: nell’ultimo anno il 54,5% dei nostri beneficiari (che hanno usufruito dei servizi d’aiuto della Caritas, n.d.r.) ha manifestato due o più ambiti di bisogno”.
Di conseguenza, emergono i “bisogni occupazionali e abitativi; seguono i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità), le difficoltà legate allo stato di salute o ai processi migratori”. In generale, come ricordava tempo fa il segretario della Cgil di Messina, Pietro Patti, “Messina è il Comune con il più basso tasso di occupazione tra le grandi città d’Italia. In riva allo Stretto il tasso di occupazione fra gli uomini di età compresa fra i 15 e i 64 anni si assesta al 50%, quasi il doppio di quello delle donne, fermo al 28%. Ma il dato ancora più preoccupante è rappresentato dal 46% dei cosiddetti neet, i giovani dai 15 ai 34 anni che non lavorano, non studiano e non cercano occupazione. E ancora: in Sicilia il 9,6% della popolazione vive in uno stato di grave sofferenza, il 38,1% è a rischio povertà e il 43,5% è a rischio povertà ed esclusione sociale”.
In conclusione, l’auspicio è che s’imponga a Messina un modello nuovo di politiche sociali, di welfare, in cui politica cittadina, regionale e nazionale non solo riescano a parlarsi ma soprattutto a contribuire a creare le possibilità di un lavoro dignitoso. Il futuro è già qui e il territorio ha già perso troppi treni in passato. Servono studi e concretezza. Meno slogan o parole inutili; più impegno per farlo riprendere. Non a caso il report s’intitola “Le relazioni educative per uscire dalla crisi”. Solo una rinnovata centralità dell’istruzione pubblica può aiutare a far ripartire un ascensore sociale, con le disparità di classe e le ingiustizie, fermo da troppi anni. Non c’è più tempo da perdere. Ma bisogna pensare anche a tutte le altre fasce d’età. Economia e lavoro, dignità e sicurezza sociale non sono temi da convegno ma vere e proprie priorità.