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“Lavoro in nero 365 giorni”: una storia di sfruttamento a Messina

MESSINA – “Vengo da un Paese lontano. E per me, abituata a un altro mondo, Messina è stata l’inizio di una nuova vita. Difficile, come sempre capita a un migrante, ma anche ricca di nuove sfide. Io, laureata, ho capito che qui dovevo rimettermi in gioco. E, in attesa di opportunità più adeguate ai miei studi, da tempo faccio la cameriera in un ristorante a conduzione familiare. Un’attività incessante, che mi piace ma che non offre certezze, né garanzie. Non sono in regola e non ho diritti”. A parlare è una donna quarantenne, in regola con il permesso di soggiorno. Ama il suo lavoro, perché è attratta dal dialogo con le persone, anche se ha competenze professionali che qui non riesce a valorizzare. Il problema principale è il lavoro nero, che la rende in balìa di chi gestisce il locale.

Che fare, in questi casi? La risposta non è semplice. “Io ho bisogno di lavorare. Nel ristorante, siamo in cinque, quattro migranti e un italiano, e nessuno in regola. Per un periodo ci avevano illuso: avevamo firmato un contratto, poi stracciato, perché il locale presenta delle irregolarità. Questa è una mia supposizione. Sta di fatto che io e i miei colleghi lavoriamo sette giorni su sette, con un doppio turno: undici, dodici ore al giorno, da mezzogiorno alle 18 e dalle 19 all’una, in estate fino alle due, per quaranta euro al giorno. Un sessanta, a volte settanta ore settimanali. Il giorno libero? Solo quando non ci sono prenotazioni e, ogni tanto, organizzandomi con gli altri colleghi. Vengo pagata in contanti ogni giorno e alla fine del mese arrivo a guadagnare un po’ più di mille euro (circa milleduecento, a parte le mance, n.d.r.). Una cifra enorme per il mio Paese d’origine e infatti mando ai miei familiari, in patria, una parte di questi compensi”.

Continua la donna: “Non mi lamento del compenso ma vorrei il giorno libero, usufruire delle ferie e delle malattie, avere un regolare contratto e non dover sottostare a qualsiasi richiesta per non perdere il posto. Se rimango a casa non vengo pagata. Lavoro da due anni così e so che non è umano. Perché non mi ribello o mi rivolgo a un sindacato? In quanto stranieri, io e i miei colleghi ci sentiamo privi della possibilità di far valere i nostri diritti. Né è facile trovare alternative, anzi, quasi impossibile qui. Almeno, fino ad ora, non mi è capitato d’avere occasioni migliori. Preciso che ho la fortuna, per ragioni personali, di poter rimanere in Italia anche senza un contratto di lavoro, cosa impossibile per la maggior parte dei migranti. E va anche evidenziato che non prendo alcun sussidio. Vivo del mio impiego”.

“Noi per lo Stato non esistiamo: questo significa il lavoro nero”

Aggiunge la quarantenne: “I miei datori di lavoro non mi trattano male ma lo sfruttamento è palese, così come è evidente l’evasione fiscale. Noi per lo Stato non esistiamo. Degli amici migranti, miei connazionali, vivono una realtà differente nel nord Italia. Lì sono messi in regola e, se cambiano lavoro, ne trovano un altro. Qui ho paura a ribellarmi per non perdere tutto e smettere di aiutare i miei parenti lontani. Questo è il lavoro nero. Sia chiaro, i disagi investono tutti, italiani e migranti, nel territorio messinese. Non ci sono grandi possibilità nella legalità ma noi migranti, inevitabilmente, ci sentiamo più indifesi. Temiamo ritorsioni se ci ribelliamo. Si può sempre trovare qualcuno che s’inventi qualcosa per farci rimpatriare. Il mio sogno? Trovare finalmente un lavoro che mi faccia sentire rispettata. Un essere umano con diritti e doveri”.

Storie d’ordinario sfruttamento

La vicenda di questa signora, nella Messina in crisi, non è un caso isolato. Se si vuole raccontare la propria storia – tra problemi lavorativi, ingiustizie e ricerca d’occupazione nel territorio messinese – si può inviare una mail a info@tempostretto.it, segnalazione WhatsApp al 266.8726275.