Società

Lavoro, libertà, persona: le sfide del mondo contemporaneo

di Nicola Bozzo

L’espressione “lavoro” indica un concetto complesso e variabile. Non fa riferimento solo a un’attività, ma anche al risultato di questa attività. Non è un agire esclusivo dell’uomo, ma come è evidentissimo oggi, anche delle “macchine”. Può essere un’attività posta sotto il peso della pena e della necessità, come lo è nella maledizione biblica, ma anche essere mossa e ispirata da uno slancio creativo, dalla trasformazione della realtà realizzata dalla capacità di ideazione umana.
Questo secondo aspetto che, come si dirà dopo, oggi assume un’assoluta centralità grazie alla larghissima diffusione del lavoro cognitivo è in qualche modo una filiazione dell’espressione greca ergon, cioè quell’energia ispirata dal pensiero che realizza un’opera indissolubilmente legata alla vocazione del suo creatore.
Il lavoro, in sostanza, riunifica un suo momento oggettivo che, per l’appunto, è la creazione di un mondo fatto dall’uomo secondo la propria coscienza, i propri valori, le proprie ispirazioni anche religiose e filosofiche, e un elemento soggettivo, quello, cioè, del ruolo, della posizione della singola persona all’interno di questo continuo divenire.

La fine del lavoro?

Gli ultimi quarant’anni hanno visto il diffondersi di profezie millenariste che annunciano la fine del lavoro, la fine della società del lavoro, la totale automazione nei processi produttivi. Del resto, risale al 1995 il famoso testo di Jeremy Rifkin intitolato appunto “The end of work”.
Oggi, grazie a un’infinità di fonti, studi, rapporti, dossier delle più significative istituzioni universitarie, politiche, strategiche, può dirsi che questo tempo suggerisce ben altro: ossia, la fine delle categorie di pensiero proiettate dalla rivoluzione industriale sull’agire umano.
In questa prospettiva, parlare di fine del lavoro corrisponderebbe a sottintendere la fine dell’uomo, ovverossia, l’esaurirsi di quello spazio di autocoscienza attraverso cui si producono oggetti, simboli, forme materiali e immateriali che, come detto, corrispondono al continuo mutare della propria relazione col mondo, cioè col proprio ecumene. Come scrive, con quella luminosità che le è propria, Simone Weil, “è con il lavoro che la ragione afferra il mondo stesso e si impadronisce della folle immaginazione”.
Storicamente, infatti, il lavoro artigiano a partire dalla città medievale e, in seguito, alle successive concezioni dell’umanesimo civile e sino al periodo dell’enciclopedismo illuminista, era a doppio filo legato alle qualità della persona, alle sue intelligenti abilità nelle arti meccaniche, al tirocinio, alla pazienza e all’unicità e incommensurabilità di ogni singola opera.

Del resto, la bottega artigiana è stata il modello della bottega dell’artista. Certamente, la negazione del pensiero era la sorte di coloro che venivano chiamati gens de bras (chi svolgeva attività manuali) in opposizione alle gens de métier (cioè gli artigiani). Ed è proprio alla fatica di queste gens de bras che si riferiva la nozione di lavoro intessuta soltanto da una cieca forza meccanica, come quella di un cavallo da soma o di un mulino a vento; e certamente sono questi lavoratori a giornata a costituire gli antenati dei salariati.

La rivoluzione industriale e il lavoro come merce

È con l’irrompere della rivoluzione industriale e con il lavoro della grande fabbrica che si spezzano violentemente tutte le precedenti stratificazioni sociali ed etiche dando l’esordio, quindi, al lavoro inteso come merce. A questo proposito non si può non rimandare a quello che è ormai un classico della cultura europea, ovvero “La grande trasformazione” di Karl Polanyi. Attraverso la finzione del libero contratto stipulato dal singolo lavoratore con l’impresa, esso cede la propria energia e il proprio tempo in cambio di un compenso prossimo alla sussistenza e spesso molto inferiore. Si cede, in sostanza, la propria pura forza lavoro, la propria pura forza meccanica (quello che Marx chiamava il lavoro astratto), assoggettata al dominio incontrastato dell’impresa.

In realtà, il contratto di lavoro è una finzione perché si occulta la circostanza decisiva che è impossibile cedere la propria energia meccanica senza cedere interamente la propria persona cioè la specifica qualità umana. Si deve fingere che non si cede sé stessi, ma solo una forza meccanica di cui la persona può disporre come altro da sé.
Con la seconda rivoluzione industriale si afferma quello che viene comunemente inteso come sistema fordista e società fordista, nella quale il lavoro viene, in maniera tecnica e scientifica assoggettato a ritmi disumani, al controllo e alla contabilizzazione di ogni singolo movimento, alla totale espropriazione di ogni parvenza di qualità umana.

L’irrompere dello Stato sociale

L’irrompere, nel secondo dopoguerra, dello Stato sociale e del diritto del lavoro umanizza, per certi versi il modello fordista, introducendo tutta una serie di diritti legati alla sicurezza, alla malattia, alla disoccupazione, alla libertà sindacale, etc. È questo l’esordio dei famosi trent’anni gloriosi della civiltà europea, nei quali si realizza un compromesso tra la libertà di mercato e le garanzie sociali di quella che era allora una società salariale, come definita da Robert Castel.
Procedendo sempre per rapidi cenni, si definisce più propriamente un tipo di contratto sociale che se da un lato non mette in discussione l’assoluta autorità nella fabbrica del potere datoriale in ordine al tempo di lavoro, all’organizzazione, alla natura della prestazione, dall’altra, attraverso i diritti sociali, garantisce alti livelli di sicurezza in riferimento al reddito, ai diritti, alla previdenza. Insomma, una sicurezza per proteggere dai rischi collettivi e individuali tipici di quella forma storica di organizzazione sociale.
Tutte le politiche – in Europa e in Italia in particolare – dei partiti di ispirazione socialista e delle confederazioni sindacali si pongono, in effetti, all’interno della logica propria di questa forma di scambio e di contratto sociale. Non è mai la libertà nel lavoro (ovverossia la partecipazione alla definizione dell’organizzazione d’impresa, l’uguale partecipazione alle modalità in cui la prestazione lavorativa viene svolta, la gestione dei tempi, insomma, con una forma riassuntiva, il contenuto e il senso del lavoro) che diventa la posta in gioco del conflitto sociale, ma, al contrario, politiche di natura redistributiva che riguardano sostanzialmente il reddito, ossia il salario, insieme, naturalmente, ai diritti sociali di garanzia cui abbiamo fatto riferimento.

Nessuno vuole negare il rilievo di queste forme di tutela, perché anche la sfera dell’avere, oltre a quella
dell’essere, ha una sua giusta collocazione nell’organizzazione sociale, ma, resta in larga parte in ombra la libertà nel lavoro come espressione di sé, come forma di autorealizzazione della persona, come momento di riunificazione tra le finalità collettive di quell’attività e la specifica posizione soggettiva nei processi di creazione del valore.

Cosa rimane del lavoro dopo 40 anni d’egemonia liberista?

Oggi, dopo un quarantennio di egemonia neoliberista e di rimodellamento del mondo governato da apparati tecnico-economici, ci troviamo di fronte a due verità evidenti. La prima è il totale dissolversi di quelle conquiste di civiltà sociale cui abbiamo fatto riferimento che hanno costituito la struttura ideale portante della cittadinanza europea dal dopoguerra fino agli anni Ottanta. La seconda è che con l’esaurirsi del modello fordista e con l’affermazione della società della conoscenza e oggi della società digitale, cresce a dismisura la richiesta di un lavoro fortemente intrecciato con la competenza e con la conoscenza.
Si affermano modelli organizzativi che hanno assoluta necessità di far leva sulla libertà e l’autonomia della prestazione professionale, sulla partecipazione consapevole, su ambiti prima imprevedibili di auto-organizzazione del lavoro che sempre di più diviene realizzazione di obiettivi a forte tasso di personalizzazione e di individualizzazione.

Contemporaneamente, accanto a una disoccupazione strutturale, si manifestano in modo sempre più crescente, forme di assoluta precarizzazione e mercificazione del lavoro, di sua flessibilizzazione e di deprivazione delle sue qualità intrinseche. Il lavoro si dequalifica, diviene ripetitivo e soprattutto scandito da forme di controllo tecnologico dei ritmi, dei tempi, e dell’esecuzione della prestazione.

Da una parte una neo aristocrazia di lavoratori della conoscenza, dall’altra un neo proletariato frammentato

Si pensi soltanto al fenomeno quantitativamente in crescita in tutto il mondo, di quella che si definisce l’economia delle piattaforme o gig economy, che ripropone una sorta di nuovo lavoro servile. Piattaforme come Amazon, Uber e tante altre, mettono in contatto committenti e lavoratori poveri per micro-prestazioni legate al trasporto urbano, alla consegna (riders), a una miriade di lavori e lavoretti cosiddetti a chiamata, privi di qualunque forma di tutela e garanzia, sottopagati, casuali, e anche in questo caso, con l’assoluta prevalenza di algoritmi e di moduli di intelligenza artificiale che divengono l’unico inanimato
referente di queste vite senza valore.
Si sta determinando, sostanzialmente, una polarizzazione tra una neo-aristocrazia di lavoratori della conoscenza, colti, urbanizzati, capaci di contrattare anche individualmente, senza le tradizionali tutele sindacali, contenuto, forme, tempi, retribuzioni perfino con attenzione alle finalità etico-ambientali delle imprese, e quello che invece è stato efficacemente definito una sorta di Quinto Stato con caratteri di neo-proletariato disperso, frammentato, parcellizzato che, a differenza degli auspici di un certo neo-marxismo, non dà segnali di autodeterminarsi come un soggetto unitario conflittuale.

Lavoratori autonomi senza tutele

Può dirsi che un altro tradizionale paradigma della società fordista, quello della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo viene fortemente rimesso in discussione. Infatti, come in qualche modo già accennato, può osservarsi il consolidarsi di livelli alti di autonomia, indipendenza, autogoverno della propria prestazione all’interno di schemi formali di lavoro subordinato. Di contro, lavori qualificati come autonomi risultano sprovvisti di adeguate forme di garanzia e tutela come anche nel caso dei lavoratori della piattaforma ma non solo. Infatti, anche grazie all’elaborazione ormai trentennale su questi temi del grande giuslavorista francese e direi neoumanista europeo Alain Supiot, l’elemento discriminante per individuare un nucleoconsistente di tutela per le prestazioni lavorative non è la classica idea della subordinazione, piuttosto quello della dipendenza economica tarata su chi offre la propria prestazione
formalmente autonoma a un committente unico titolare di poteri soverchianti e del tutto asimmetrici.

Dare dignità del lavoro a chi svolge un’attività d’interesse sociale


Un ulteriore tratto di novità che esige nuovi paradigmi di interpretazione è quello della distinzione tra un lavoro nel mercato e un lavoro fuori dal mercato. Si tratta, cioè, di attribuire la dignità sociale e giuridica del lavoro a tutte quelle attività rivolte al soddisfacimento di esigenze di interesse sociale, di cura alle persone, di manutenzione del territorio, di tutela ambientale, di alfabetizzazione digitale dei soggetti più vulnerabili etc., cioè a quei beni legati intimamente alla materialità della vita individuale e sociale, ristabilendo così una relazione sempre taciuta e messa in ombra tra un lavoro inteso come attività dell’uomo e le finalità di pregio collettivo cui questa attività si rivolge.

La lezione del Covid

È stato proprio grazie al Covid che è emerso in tutta la sua portata il valore prezioso di queste attività incentrate sulle relazioni e su una cura inesausta dei legami personali, di presa in carico delle povertà contemporanee che non sono solo legate al reddito, ma a una sorta di invisibilità. Numeri casuali dispersi nella frenesia tecnica centrata sulla volontà di potenza.

La proposta di una dichiarazione dei diritti dei lavoratori essenziali

La senatrice americana democratica Elizabeth Warren ha proposto nel 2020 l’adozione di una dichiarazione dei diritti dei lavoratori essenziali. Questa proposta ha generato un rapporto nel 2023 dell’Organizzazione internazionale del lavoro proprio centrato sul valore dei lavori essenziali.
Non si tratta dell’empireo dei principi, ma di occupazioni che riguardano la sanità, il settore alimentare, il commercio al dettaglio, la sicurezza, le pulizie e la sanificazione, le occupazioni manuali e quelle tecniche e amministrative. Realizzare forme di tutela, garanzia e riconoscimento per queste attività, significa ingaggiare un conflitto con i mercati su ciò che è essenziale, necessario, irrinunciabile. Significa anche tentare di rimettere il mondo con i piedi nella terra, dentro lo scorrere delle concrete vite materiali.

La coscienza umana contrapposta alla dittatura dell’algoritmo

Quanto detto evoca dunque la necessità di definire ciò che è essenziale del lavoro trascendendo le priorità stabilite dalle logiche del mercato. E questo ha molto a che fare con l’automazione, con l’intelligenza artificiale, con la relazione tra uomo e tecnica, perché i lavori cui ho fatto breve cenno implicano una qualità che mai potrà avere un algoritmo, cioè la coscienza umana: la consapevolezza delle finalità cui si indirizza la propria libertà e il punto di congiunzione tra noi e gli altri. Cioè tra una coscienza e un sentire che si implicano reciprocamente e che non possono essere surrogati da un codice digitale.
A questo proposito, può ricordarsi quanto enunciato dalla dichiarazione di Filadelfia, fondamento “costituzionale” dell’Organizzazione internazionale del lavoro, nel 1944, dove si richiede “l’impiego dei lavoratori in occupazioni in cui essi abbiano la soddisfazione di mostrare tutta la loro abilità e le loro conoscenze e di contribuire per il meglio al benessere comune”. Come si vede, ritorna qui con una chiarezza cristallina quel nesso irrinunciabile tra il momento soggettivo e il momento oggettivo del lavoro, ossia un lavoro intessuto dall’abilità e dalla conoscenza per finalità di bene comune.

È fatale che infiniti sono i temi che si rincorrono nella mente, trattando un tema così polisemico. Accenno soltanto al ruolo degli Stati o a una nuova efficace e soprattutto cogente disciplina a livello transnazionale della cosiddetta responsabilità sociale d’impresa.

Quel nesso necessario tra diritto del lavoro e diritto del welfare

Concludo richiamando brevissimamente le conclusioni a cui era giunto nel 1998 il rapporto della Commissione europea sul futuro del lavoro, presieduta da Alain Supiot. Faccio riferimento alla riedizione e integrazione del testo che è del 2017. Svolgendo il tema del nesso necessario tra diritto del lavoro e diritto del welfare, si individuavano quattro cerchi concentrici che avrebbero dovuto ispirare il diritto sia statale che europeo.

Quattro cerchi concentrici che dovrebbero ispirare il diritto statale ed europeo

In un primo cerchio vengono collocati i diritti sociali universali cioè garantiti a tutti universalmente, indipendentemente dal loro lavoro: l’istruzione, la sanità e anche un nuovo diritto fondamentale alla formazione permanente.
Nel secondo cerchio, troviamo un corpo di diritti fondati sul lavoro non professionale, come abbiamo detto, lo svolgimento di un’attività socialmente utile legata alla cura di beni collettivi.
Il terzo cerchio è quello di un diritto comune dell’attività professionale. Fondamentale il riferimento a un diritto comune del lavoro che trascenda, come detto, le artificiose distinzioni tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Il quarto cerchio è costituito dai diritti propri del lavoro salariato con disposizioni tarate in funzione dell’intensità della subordinazione.

I nuovi diritti sociali

Dentro questo quadro si individuano nuovi diritti sociali chiamati droits de tirage (che possiamo tradurre come diritti di prelievo), attraverso cui ogni persona può, anche nella intermittenza di specifici rapporti contrattuali, scegliere tra più attività. Appunto, come detto, il lavoro non mercantile, periodi di formazione periodi di cura delle proprie relazioni familiari e così via.

Si aspira, cioè, alla creazione di uno statuto professionale che prescinda dall’impiego, ma che tuteli la persona in quanto tale, nell’intero arco della propria biografia. Non a caso il rapporto viene titolato “al di là dell’impiego”. Così si tende a superare una flessibilità unilateralmente determinata dal mercato e si fa emergere un governo del proprio tempo e della propria vita intessuto da libertà concrete. Certo, questa riscrittura di lavoro e welfare comporta dotazioni finanziarie, risorse, impegno dello Stato, delle imprese, delle realtà mutualistiche del terzo settore, tutte da definire.

Queste nuove istanze di libertà sono rimaste ancora residuali

Comunque il filo rosso, magari sotteso e non espressamente detto, riguarda la sinistra del XXI secolo. Il Socialismo nasce storicamente dentro il conflitto del lavoro ed è in qualche modo figlio dell’epoca fordista. Queste nuove istanze di libertà che abbiamo definito nel lavoro, che rompono dunque il modello gerarchico imperniato sull’unilateralità di quello che oggi possiamo definire management, sono rimaste eluse e residuali.

Per un nuovo umanesimo socialista e personalista

Sembrerebbe che oggi ci si dibatta tra il momento dell’essere (cioè le giuste rivendicazioni legate a diritti civili che riconoscano nuove forme di soggettività individuale) o il momento dell’avere (le altrettanto apprezzabili rivendicazioni sulle questioni salariali). Oltre questo, resta nell’ombra quello che abbiamo definito il momento dell’agire, ossia della libertà, dell’autonomia, del senso e delle finalità della persona nella sua relazione con il lavoro e quindi con la vita. Trovo che questo sia un terreno da dissodare e far rifiorire per un umanesimo socialista e personalista, in questo tempo così convulso.

Nicola Bozzo