“Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica”.
Con questa celebre frase di Friedrich Nietzsche, Laura Sicignano ha deciso di aprire le note di regia delle sue “Baccanti”. L’ultima tragedia di Euripide, nella traduzione e nell’adattamento di Sicignano, insieme a Alessandra Vannucci, si richiama continuamente a questa potente immagine del filosofo del dionisiaco e apollineo.
La produzione del Teatro Stabile di Catania colpisce, infatti, nella sua Prima Nazionale al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, per il suo gioco continuo tra ragione e follia.
“Le Baccanti”, da molti considerata la più grande opera del tragediografo di Salamina, racconta la storia di Dioniso, dio del vino, del teatro, dell’ebbrezza, e la sua vendetta verso chi non ha creduto in lui. Dioniso è, infatti, figlio di Zeus e di una donna mortale, Semele. Ma le sorelle di Semele e il nipote Penteo, re di Tebe, non credettero mai a questa nascita divina, sostenendo che Dioniso fosse nato dall’unione della donna con un altro mortale. Per rivelare la verità e punire chi l’aveva negata, Dioniso decide di scendere in terra e coinvolgere tutte le donne di Tebe in un furore bacchico. A raccontarlo è Dioniso stesso nel prologo, grande novità per Euripide. Questa novità, nell’adattamento di Sicignano, viene ancor più rivoluzionata, perché a interpretare Dioniso è una donna, Manuela Ventura. Scelta simbolica e significativa, che dona modernità alla rappresentazione ma svela profonda attenzione al testo classico e alla figura del dio che ne viene descritta.
Così nasce, nell’adattamento, rispettosamente traditore dell’originale, il contrasto tra Penteo e Dioniso, opposti ma speculari. Penteo (Aldo Ottobrino) rappresenta la rigida razionalità, o almeno così vorrebbe rappresentarsi alla sua città, come dimostra anche il suo abbigliamento. Indossa un completo giacca e cravatta grigio lucido, che non lo rende dissimile ad un tipico politico del nostro tempo; ma con l’avanzare degli eventi apparirà sempre più scomposto, per poi svestirsi del tutto e, addirittura, travestirsi da donna.
Dioniso, con la sua voce stridula, i movimenti ammiccanti e grotteschi, “straniero effeminato” come lo chiama Penteo, è, invece, la follia, la sregolatezza. Ma i loro ruoli sembrano confondersi; mentre Penteo si traveste da donna per spiare le Baccanti, Dioniso si palesa despota impietoso nel prendersi gioco di lui.
Sarà Agave (Alessandra Fazzino), madre di Penteo, in preda ai deliri bacchici, la prima a colpire il figlio e sarà sempre lei ad attaccare la sua testa ad un bastone, convinta fosse quella di un leone.
È la voce stessa di Penteo a raccontare la sua fine, mentre il suo corpo inerme e nudo appare sul palco, e i suoi occhi, il braccio, l’orecchio vengono proiettati sullo sfondo.
Spetterà a Cadmo (Franco Mirabella), il padre delle donna, lacerato dal dolore, far rendere conto alla figlia dell’atrocità che ha commesso.
L’opera euripidea è stata considerata come la svolta religiosa del tragediografo da sempre ateo, un monito verso l’umanità a non ribellarsi agli dèi; ad uno sguardo più approfondito non sembra voler insegnare questo, ma il contrario. Ogni sfaccettatura del Dio e della sua potenza dionisiaca appare spietata, spesso ingiustificata, caratterizzata dal più basso sentire, come per l’esilio finale di Agave e Cadmo. Le Baccanti è una tragedia che resta senza nessuna risposta, solo con tante domande, e a questa idea si dimostra estremamente fedele l’interpretazione di Sicignano, pur stravolgendone la messa in scena.
La follia continua ad essere, per tutta la narrazione, la grande protagonista; la “saggia follia” la definisce il veggente Tiresia (Antonio Alveario). Ed è il rapporto della follia con la ragione a porci domande, in questo percorso che, tra Euripide e Nietzsche (passando anche per il carpe diem di oraziana memoria), attraversa secoli e si mostra più attuale che mai. Per ciascun personaggio gli altri sono folli, hanno perso il senno; “chi parla saggiamente sembra pazzo a chi non sa niente” dichiara Dioniso a Penteo, richiamandosi nuovamente alla riflessione del filosofo tedesco. Sempre a lui si riferisce quando suggerisce alla Baccanti: “Partorirete un stella danzando”; “bisogna aver un caos dentro per partorire una stella danzante” affermava, infatti, Nietzesche. Folle è il caos delle baccanti e folle, al tempo stesso, è la pretesa di razionalità assoluta di Penteo. La follia viene lodata, esaltata, ma anche condannata, perché colpevole delle più spietate atrocità; così accade per la ragione e le sue finte e illusorie certezze cristallizzate, capaci di altrettanto gravi empietà.
La lettura contemporanea del Teatro Stabile di Catania ama giocare con i contrasti che si incontrano e confondono. Ad incarnare questi poli opposti sono Penteo e Dioniso, ma a rappresentarli sono scelte stilistiche particolari.
“Baccanti” è un continuo cammino tra vecchio e nuovo, estasi e inquietudine, irriverente e tragico.
I riti bacchici sono evocati con le danze psichedeliche delle Baccanti (Egle Doria, Lydia Giordano, Silvia Napoletano ), sempre più incalzanti, accompagnate dalle musiche originali eseguite dal vivo da Edmondo Romano, che variano dalle sonorità elettroniche a quelle tribali, stridenti a volte, laceranti altre, poi sempre più veloci. La musica e i movimenti scenici dialogano in questa armonia tra parola e corpo, vogliono descrivere l’estasi di quei momenti, il lasciarsi andare all’ebbrezza, ma sono anche inquietanti, angoscianti, mostrano il dominio totale del dio su queste donne, nient’altro che burattini nelle mani del loro burattinaio, e spaventano.
La tensione di questi momenti o la tragicità della vendetta di Dionisio si incrociano con e si accompagnano, poi, ad atmosfere diverse. Un esempio è l’arrivo del messaggero (Silvio Laviano), che racconta l’agghiacciante devastazione compiuta dalle Baccanti in maniera esagerata, macchiettistica e irriverente. O, ancora di più, l’ingresso di Tiresia e Cadmo, che scherza perfino con la cecità dell’indovino, qui privato di ogni reverenziale saggezza, ironico e leggero, anche nel modo di vestire. Quando, però, a parlare per Tiresia sono i suoi vaticini ecco che torna tutta la sua profondità apparentemente dimenticata.
È un gioco di contrasti raccontato con un unico linguaggio organico in tutte le sue sfaccettature, dalla scena e costumi di Guido Fiorato e le luci da Gaetano La Mela, che giocano con bianco e nero; ai video di Luca Serra, ai movimenti di scena di Ilenia Romano e all’aiuto alla regia di Nicola Alberto Orofino, che offrono a tutto lo spettacolo un aspetto visionario e vaneggiante.
A suggellare il tutto è il finale. Sul pianto di Agave si erge la vittoria di Dionisio, le vesti da nere divengono bianche e lui, protagonista di una danza tra luci, ombre e proiezioni, recita il suo monologo finale in greco, mentre le parole si riflettono sullo sfondo e le Baccanti si immobilizzano alle sue spalle. Tutto sembra fermarsi; ma è un lamento a chiudere il sipario.
Sicignano porta in scena un’opera originale e fruibile, ma priva di ogni forma di riscatto per i suoi protagonisti, o di catarsi per i suoi spettatori. Racconta la crisi dell’uomo, l’uomo del suo tempo e l’uomo di ogni tempo, schiacciato dalla violenza degli eventi senza poter trovare una ragione, vittima di un destino più grande di lui, perché “la vita distrugge insieme il colpevole e l’innocente”.
Se è vero che la storia non offre un riscatto, è anche vero, però, che offre più di una riflessione. Cadmo e Agave affrontano la loro tragica e ingiusta sorte con dignità, ricordando tanti eroi del quotidiano che sopportano, con coraggio, tragedie di cui non sono colpevoli. Attraversano un percorso che dalla morte, magari, li porterà ad una rigenerazione; Tiresia stesso, durante la sua visione, fa accenno al legame morte e rinascita come ciclo naturale del mondo (richiamando le idee del filosofo eretico Giordano Bruno).
E, infine, in questo infinito viaggio tra follia e ragione, ci si pone una domanda: e se a volte, forse, il folle fosse solo il diverso? “Baccanti” ce lo chiede con una semplice frase proferita da Dioniso, che spiazza per la sua schiacciante attualità: “ognuno chiama barbaro chi non è nei suoi usi”.
Si replica sabato 8 gennaio, alle 21, e domenica 9, alle 17,30.