ROCCALUMERA – Salute compromessa, certo. Ma anche ristrettezze economiche e anzianità. E, soprattutto, solitudine. “La solitudine, per come la vediamo qui – dice Flavia Finocchio, responsabile della
comunità Francesco Maria di Francia, a Roccalumera – è una condizione complessa, fatta di mille sfaccettature e molto, molto diffusa. Se dovessi dire quale sia la prima causa che conduce i nostri ospiti alla nostra struttura, direi che è proprio la solitudine”.
Su una dozzina di posti disponibili in comunità in questo momento 7 sono occupati, ma lo staff sa bene che da qui a poco tutte le stanze saranno probabilmente di nuovo impegnate. La comunità è nata nel 2013. E da allora è praticamente sempre “al completo”.
“Dobbiamo dire mille volte grazie alla Caritas diocesana dalla quale riceviamo aiuti costanti. Altrimenti non potremmo continuare ad offrire la nostra assistenza. È importante che lo si sappia, perché a volte siamo noi operatori i volti dell’accoglienza e non si comprende che dietro ci sono risorse e organizzazione e disponibilità della Caritas per far sì che questa struttura continui ad esistere”, sottolinea Flavia Finocchio.
Continua la responsabile: “Abbiamo perso di recente alcuni ospiti che stavano da noi chi da 10 anni, chi da 12. Mi ha colpito che la figlia di uno di loro ci abbia voluto ringraziare dicendo che avevamo trattato il padre come se fosse stato un nostro familiare. È il nostro obiettivo: alle terapie, all’assistenza pratica, alle attenzioni quotidiane, deve aggiungersi un’atmosfera di affetto, perché, per dirla in breve, le medicine non bastano a curare”.
Ma perché creare una famiglia fuori dalla famiglia? “In molti casi la gestione di un malato grave o di una convalescenza molto lunga o di un parente con significative patologie mentali è semplicemente troppo difficile o troppo dispendiosa per i familiari. In altri casi, all’interno delle famiglie si sono create fratture insanabili oppure i familiari vivono molto lontano e il malato non può essere trasferito né loro possono tornare in Sicilia. E naturalmente in molti altri casi ancora – a diretta conseguenza dell’invecchiamento generale della popolazione – la famiglia non c’è più, letteralmente il malato non ha nessuno che possa occuparsene”.
E la sanità pubblica? Le strutture convenzionate? Spiega la responsabile: “Ciò che ho visto nella mia esperienza è che la sanità interviene sulla situazione acuta, non sul complesso delle necessità del malato, il quale oltre a dover fare certe terapie magari deve essere affiancato perché prenda i farmaci all’ora giusta, perché eviti comportamenti che lo danneggerebbero, perché adotti le precauzioni necessarie alla sua salute. Non solo. Il malato deve essere assistito spesso anche nell’accesso ai servizi sanitari e nella loro fruizione. Ci sono mille pratiche da fare, complicate e stancanti. Da noi arrivano spesso persone che non sono andate a scuola, che non sanno leggere. Figuriamoci se riescono a fare una prenotazione, se comprendono a quale sportello devono rivolgersi, se sanno usare le email. «Sempre sulla scorta della mia esperienza, direi che le strutture convenzionate non sembrano avere posti sufficienti ad accogliere tutti coloro che ne hanno necessità e – se non sono stata informata male – dopo qualche tempo l’utente deve pagare un mensile. Ecco, da noi arrivano persone molto povere. E sono tante, come abbiamo
constatato negli anni. Quindi, sì, ci sono moltissimi bisogni a cui il servizio pubblico non riesce a far fronte”.
La vita si è allungata, insomma, ed è anche e soprattutto alla qualità di questa vita che si deve pensare. Racconta la rappresentante della comunità Francesco Maria di Francia: “In comunità vive da anni una signora che questo inverno ne compirà 82. È seguita dal Dipartimento di salute mentale, è stata trovata che girovagava sporca, anche lei in un paesino della provincia, aggrediva verbalmente i passanti, si faceva i bisogni addosso. Oggi la signora tiene molto a farsi il colore per i capelli, si fa la doccia anche due volte al giorno, dà una mano in cucina, tiene severamente nota del rispetto degli orari della struttura. Sì, però, davvero, non è solo l’età a incidere. Incidono tanto anche la disgregazione delle comunità e, appunto, la solitudine”.
Per esempio, in questo momento a Roccalumera c’è una donna arrivata con una gamba in cancrena, immersa nei propri disagi mentali, insolvente e piena di debiti, con gravi problemi di circolazione. Viveva in un paesino della provincia di Messina e si era auto-isolata dalla famiglia, non rispondeva, non apriva la porta di casa, si era trascurata oltre ogni immaginazione. “Ha solo 63 anni e io – dice Flavia Finocchio – stento a credere che nessuno nel tempo si sia accorto della sua condizione. Tuttavia la segnalazione ai servizi sociali è scattata esclusivamente quando la sua puzza, le sue urla, il suo disordine hanno
disturbato eccessivamente i vicini. Non un minuto prima. E la condizione della signora era già molto compromessa”.
Oppure, c’è un uomo di appena 42 anni, di origine polacca, al quale i familiari hanno tolto tutto, approfittando di un momento in cui era ricoverato per una caduta rovinosa in un qualche lavoro in nero in campagna. Uscito dall’ospedale si è ritrovato abbandonato, per strada, più povero di quando era
arrivato in Italia, 20 anni fa. E con una lunga convalescenza da affrontare. Sia l’una che l’altro oggi stanno decisamente meglio. Lei ha imparato a curarsi di se stessa, si lava e si gestisce come meglio può, si è rasserenata e partecipa a tutte le attività e i laboratori proposti dalla comunità. Lui, sempre su input del team di operatori, ha trovato lavoro da un fornaio – che di lui dice sempre bene, perché è “un gran lavoratore, serie, puntuale e affidabile” – e sta cercando casa per andare a vivere da solo.
C’è, per dire di un altro caso, un quasi settantenne che da ragazzino orfano di padre ha visto il patrigno uccidere la madre. A sua volta, da adulto, non è stato un buon padre e suo figlio ha conosciuto momenti davvero bui, riuscendo a riprendersi e oggi a vivere una vita piena e autonoma. Quel figlio lo ha portato nella comunità di Roccalumera, perché era qui che lui era stato aiutato. L’uomo ha un gravissimo tumore alla bocca. È entrato in struttura con una prospettiva di vita di sei mesi e sono trascorsi quasi tre anni. Mangiava omogeneizzati e frullati e ora fa onore a pranzi e cene “normali”. Non ha più contatti con il figlio ma ha ritrovato un pezzo della sua famiglia, e riceve le videochiamate di sorelle e fratelli, figli della stessa madre e di quel patrigno assassino. Erano bimbi all’epoca dei fatti sanguinosi e sono stati tutti adottati, sparpagliati per mezza Italia.
Aggiuge Flavia Finocchio: “Le storie dei nostri ospiti sono di quelle che stanno “sottotraccia”. In pratica
è come se si volesse evitare di vederle, come se si voltasse sempre lo sguardo da un’altra parte. Ma numerosissime persone hanno vissuti difficili e le conseguenze di questi vissuti sono aggravate dall’emarginazione. È brutto dirlo, ma certi contesti peggiorano le situazioni giù gravi dei singoli. Noi lo
sappiamo perché conosciamo la provenienza di tutti gli ospiti che abbiamo e abbiamo avuto. Si tratta di contesti periferici in cui la povertà economica si coniuga con quella sociale e culturale”.
Così che un uomo con una significativa disabilità intellettiva abbandonato a se stesso aveva crisi continue e a stento sopravviveva, oggi va per conto della comunità a fare la spesa, si reca in farmacia e al supermercato, va da solo a farsi visitare dal medico di base, tiene coscienziosamente in ordine i
propri documenti medici.
Evidenzia la responsabile della struttura di Roccalumera: “Noi come società non conosciamo davvero i guai, le tragedie, le difficoltà dei nostri simili e invece sarebbe fondamentale ricordarsi che quella persona
che magari ci dà fastidio, che vediamo urlare per la strada, che ci insulta quando la incontriamo, che appare incrostata di sporco, oppure che sappiamo rinchiusa in un appartamento senza mai uscire, che ci appare di una magrezza eccessiva, che sta vestita di cotone in pieno inverno o di lana in piena estate, ecco, quella persona non solo può essere aiutata ma deve essere aiutata, perché ha ancora tante risorse in sé che possono essere attivate. E ciò non è di aiuto solo alla persona diretta interessata ma all’intera
società. Far stare tutti meglio significa meno problemi, meno costi, meno disagi anche per coloro che stanno bene. È un’assoluta evidenza”.
La comunità nasce dalla collaborazione tra la Caritas diocesana di Messina, l’associazione di volontariato e cooperativa sociale Santa Maria della Strada e le Suore Cappuccine del Sacro Cuore. Ed è destinata all’accoglienza di adulti in condizione di grave disagio e difficoltà.
Vi operano stabilmente tre operatori per il turno diurno e due operatori per il turno notturno. La responsabile Flavia Finocchio è una educatrice. Al loro fianco si alternano diversi volontari, compresi giovani impegnati in progetti di servizio civile. E sono numerose le attività che vi si svolgono, dalle lezioni di ballo a vari laboratori.
Si accede alla comunità tramite segnalazioni dei Servizi sociali, segnalazioni della Caritas, segnalazioni delle Parrocchie, soprattutto del territorio. Ma anche con il passaparola, chiedendo aiuto come semplici cittadini.
Naturalmente lo staff fa colloqui per verificare situazioni e condizioni. “Accogliamo chi ha più bisogno”. Per contattare la comunità: email s.mariadellastrada@libero.it, tel. 0942 682477 e 090 6409387.