L’infanzia è, soprattutto, il ricordo che rimane, impresso e mitizzato, nell’immaginario di un adulto, o meglio di ciò che un bambino è diventato nel tempo. Ed è dall’infanzia, o forse addirittura da uno stato prenatale, che prende le mosse “Intanto anche dicembre è passato” (Baldini&Castoldi), l’ultimo libro di Fulvio Abbate, scrittore “incivile” dei nostri giorni.
Una figura umana che è impossibile imbrigliare in un’etichetta, fonte inesauribile di aneddoti, storie, persone, Abbate va da Trockij al tagliaunghie Trim (“in casa mia tra la religione e il tagliaunghie Trim non c’era discorso: si sceglieva il tagliaunghie Trim, tutta la vita”), giungendo fino alla polemica al Premio Strega che, quest’anno, lo ha visto protagonista, solo contro tutti, al Ninfeo di Villa Giulia nella contestazione al sistema che detiene il controllo della cultura in Italia, incarnato da quella che lui stesso definisce la p2 veltroniana.
Fulvio Abbate è un amabile conversatore, sempre apparentemente sovrappensiero, che stupisce per la ricchezza di immagini di cui parla e per i paradossi nei termini in cui ne parla.
“Intanto anche dicembre è passato” si presenta come un insolito memoir sulla Palermo degli anni ‘60, attraverso il racconto ironico e mai nostalgico della tua infanzia. Com’è nata l’idea di questa narrazione?
Ho immaginato che il sogno di un bambino – quello di assistere ad un veglione alle Folies Bergère – fosse narrato in tempo reale in quei giorni, in una casa dove non siamo soltanto noi, io e i miei familiari, ma c’è anche Hitler, che mio nonno ha deciso di ospitare e che, per qualche ragione, io chiamo zio. Così come un altro personaggio che c’è nel romanzo, Ettore Majorana, in giro per casa vestito da suora intento a darmi ripetizioni di matematica. Questo racconto dell’infanzia si incrocia con il racconto della fine di questa famiglia, della morte di tutte le figure che costituiscono il mio tesoro affettivo.
L’ironia, l’assurdo sono tratti distintivi della tua prosa, nonché della tua intensa attività di intellettuale di natura patafisica, e sono ampiamente riscontrabili nel tuo romanzo, anche nel modo in cui viene raccontato il lutto, la perdita.
Nella seconda parte il romanzo si sofferma su mia madre e su una riflessione sul lutto, un lutto felice, però. Al di là della perdita ho provato a raccontare la pienezza che ti rimane da un’esperienza familiare così intensa. A un certo punto racconto quello che è stato in un certo senso il mio banco di prova di scrittore, in occasione della morte di mia zia Gioconda, una donna che ha avuto un ruolo importante nella mia vita. Dopo il funerale, l’uomo delle pompe funebri mi disse che c’era spazio sulla lapide per poter incidere una frase. Dopo aver riflettuto molto e desiderato una frase che non fosse scontata, ricordando le mattinate a Mondello a pescare con lei, mi venne: “Eri per noi l’estate”. Credo che questa immagine custodisca una pienezza, un senso della gioia che riesce a surclassare qualsiasi lutto. E ho provato a raccontare anche questo.
Il romanzo è ambientato a Palermo, città alla quale, anche recentemente, non hai risparmiato pesanti invettive. Qual è il tuo rapporto con la Sicilia? Vedi ancora oggi la Sicilia come un luogo di narrazione?
Vedo molto la Sicilia come un luogo per la mia narrazione, non a caso, il mio prossimo romanzo sarà ancora un romanzo siciliano, un romanzo di memoria, come l’ultimo, un prosieguo di “Intanto anche dicembre è passato”. Ho un ottimo rapporto con il mio vissuto siciliano. Un rapporto magico, che mi commuove. Qualcosa che precede la mia venuta al mondo, quasi fetale. Pessimo, invece, il confronto con il presente, con il quotidiano. Quando parlo della mia relazione con la Sicilia, mi riferisco esclusivamente alla realtà della città di Palermo, avendoci vissuto fino all’età di 26 anni. Dopo il 1979 si rompe tutto. Un progressivo ed inevitabile peggioramento della qualità dell’esistenza quotidiana, basti pensare alla grande guerra di mafia di quegli anni, quindi l’imbarbarimento sociale. Lì ho cominciato a percepire che in realtà, contrariamente a quello che pensavo, la Sicilia non era il centro del mondo. Credo che il tratto peggiore della Sicilia di oggi sia quello arrogante, mafioso e paramafioso di certi autoctoni.
Dopo dieci ore di vita a Palermo comincio a sognare il bombardamento al napalm.
Con l’esperienza a Teledurruti, la televisione monolocale dalla quale filtri la tua versione dell’esperienza umana, al momento in Italia sei l’unico scrittore che fa letteratura attraverso il web. Quanto questo mezzo determina la tua arte?
Io sono uno scrittore, tutto quello che faccio lo faccio in quanto scrittore. Uno scrittore atipico, con una vocazione automitologica. L’arrivo della possibilità di filmare dei video su Youtube mi ha dato la possibilità di inventare pienamente me stesso. Teledurruti è un romanzo che poi è stato trasformato in un’opera d’arte vivente che si rinnova quotidianamente.
Quanto condiziona i tuoi rapporti con il panorama culturale italiano l’estrema libertà che ti concedi attraverso i tuoi diversi canali di espressione?
Sono un artista e, in quanto tale, devo essere recepito per ciò che sono. Non ho rapporti con nessuno; a un certo punto mi sono fatto il dono di essere pienamente me stesso e Teledurruti mi ha dato la possibilità di farlo. Scrivo romanzi e collaboro come editorialista sul Garantista e sul Fatto Quotidiano, testate che mi danno la possibilità di esprimermi molto liberamente. Tra l’altro, il Premio Forte dei Marmi per la satira politica e per l’informazione sul web, non l’ho avuto certo per gli articoli che non mi hanno fatto scrivere su l’Unità, ma per tutto ciò che ho fatto muovendo unicamente da me stesso con Teledurruti, il canale privilegiato per la mia forma mediatico-espressiva.
Credo nella libertà assoluta dell’artista, altrimenti andavo a vendere kiwi: spesso non ho nessuno al mio fianco come in occasione del Premio Strega, ma la solitudine è la mia forza.
Giuseppina Borghese