Di seguito la riflessione del professor Michele Limosani
La Commissione Europea ha dato il via libera alla nuova linea di credito Pandemic Crisis Support a valere sulle risorse del MES e tutti gli stati membri, da ora in poi, avranno la possibilità di finanziare a basso costo investimenti sanitari enormi senza alcuna condizionalità. Un risultato che rende giustizia di un assurdo e sterile dibattito che ha ammorbato il paese; una ghiotta opportunità per il governo nazionale per aumentare la spesa sanitaria che negli ultimi anni ha subito tagli consistenti. La questione, quindi, non è più tanto quella di prendere questi soldi (sono disponibili circa 37 miliardi per il nostro paese), quanto piuttosto quella di decidere cosa fare con queste risorse. Quali sono le strategie da adottare? Quali sono le priorità? Proviamo, sia pur in modo sintetico, ad affrontare tali questioni.
Il prof. Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione del S. Raffaele di Milano, nel suo recentissimo e-book “In prima linea contro il Coronavirus” sostiene che “il ricorso alla terapia intensiva è stata la misura del fallimento del sistema di prevenzione e di cura sanitario”. E mentre tutto ciò poteva essere giustificato all’inizio della crisi quando il virus ci ha colto impreparati, tale atteggiamento non può essere tollerato nella fase post crisi della virus; perseverare, diabolicus est. Secondo il prof. Zangrillo, ma non è l’unico scienziato impegnato su questo fronte, gli ospedali non sono la prima linea di difesa contro l’epidemia e rimangono un’extrema ratio.
Un messaggio in controtendenza nel dibattito pubblico che rischia, tuttavia, di finire su un binario morto anche per via del gran battage pubblicitario sostenuto dalle tv e dai quotidiani sulla decisione di potenziare le strutture ospedaliere in termini di nuovi posti letto, ordinari e di terapia intensiva -nella sola provincia di Messina sono previsti 569 posti di cui 446 ordinari e 115 di terapia intensiva. Una scelta, lo ripeto, opportuna e doverosa nella prima fase della crisi in cui il motto è stato “mettiamoci al sicuro”, ma che sembra essere una decisione da sottoporre quantomeno ad una riflessione critica se riproposta anche nella fase post-crisi.
E’ efficace ed efficiente, dal punto di vista economico e sociale, orientare tutte le future risorse finanziarie e gli sforzi organizzativi sulla gestione delle emergenze sanitarie, sulla terapie intensive e quindi sul potenziamento delle infrastrutture ospedaliere? O, piuttosto, si deve favorire una strategia più “community based”, che limiti al massimo l’ospedalizzazione e sia in grado di produrre una trasformazione profonda della gestione del sistema della prevenzione, del monitoraggio e dei servizi domiciliari alla persona? Una strategia in cui le ASL e la rete territoriale dei medici di base e dei pediatri, le funzioni loro assegnate, le competenze, la tecnologia a disposizione, i modelli di gestione e di organizzazione, diventano questioni rilevanti?
Io non credo che con le risorse future disponibili potremo fare tutto (potenziamento strutture ospedaliere e medicina territoriale); ma se la scelta del governo regionale fosse quella di riprendere i 270 progetti infrastrutturali rimasti incompiuti, allora la direzione sarebbe già segnata e non coglierebbe il nodo del problema, e cioè la necessità di investire in prevenzione. Una seria e approfondita analisi del modello di gestione della sanità regionale, scevra dalle “pressioni” -anche legittime- che provengono dagli interessi organizzati, si rende necessaria. In questa prospettiva ci aspettiamo dalla politica regionale un contributo che non può limitarsi alla discussione sulle mascherine e sui tamponi (cosa peraltro buona e giusta), soprattutto quando ad essere in gioco c’è la salute dei cittadini.
Michele Limosani