La nuova inquisizione: quella dei social. Quella di chi attacca e demonizza a colpi di tastiera. Una inquisizione 2.0 che ci obbliga, a noi media, a essere ancora più responsabili. Ma è possibile fare informazione sollevando problemi senza criminalizzare le persone? È possibile denunciare, polemizzare, criticare, individuare punti critici e comportamenti scorretti senza però additare il presunto reo alla pubblica piazza dei social, pronta a lapidare chiunque faccia, ad avviso di chi commenta, un errore? Secondo noi sì. Nessuno è esente da errori. E chi scrive ne commette, di certo, parecchi nella corsa quotidiana a fare un giornale online che ambisce a essere sempre di più al servizio di lettrici e lettori. Ma proprio per questo riconosco che dovremmo essere tutti, persino il popolo scatenato del web, meno avvezzi a scagliare la prima pietra.
Che cosa ci spinge, nel commentare una notizia di cronaca, sia una lite tra ragazzini in un campo di calcio, sia la vicenda di una madre che ha lasciato in auto un bambino di sette anni, a sapere con certezza che cosa avremmo fatto noi e a condannare in modo implacabile? Noi, sempre giusti, sempre perfetti, sempre dalla parte delle persone corrette, almeno sui social, e così pronti a giudicare senza attenuanti nella pubblica inquisizione di Facebook. Sì, l’inquisizione 2.0, o del nuovo millennio, si può annidare nei commenti sprezzanti diretti a condannare gli altri senza pietà.
Questo schema amico/nemico invade ogni sfera pubblica, dalla politica alla cultura e ogni fenomeno pop, e rende tutto assoluto e mai soggetto a dubbi, interrogativi, pensieri non autoritari. Di conseguenza, se si difende lo Stato di diritto e si hanno dubbi sul carcere come panacea di tutti i mali, si è collusi e amici dei criminali. Se si pensa ad esempio che la cosidetta giustizia riparativa avrebbe molta più efficacia in tanti casi, o che si dovrebbe tornare allo spirito della Costituzione nel segno del recupero e reinserimento dei detenuti, si è spiriti deboli o nemici della redenzione universale fatta di pena di morte e galera a tutti i costi per tutti. Senza se e senza ma. Senza “dubbi mai”, come cantava De Gregori in “Santa Lucia”.
Come scrive lo scrittore Amos Oz nel libro “Contro il fanatismo”, “se l’essere umano fosse più curioso, più aperto, più fantasioso, più disposto a mettersi nei panni degli altri, credo che il mondo diventerebbe un luogo più bello, passo dopo passo”. Mettersi nei panni degli altri significa ogni tanto riflettere di più e non avere sempre la certezza di sapere in modo assoluto che cosa avremmo fatto in quella determinata situazione.
Noi, sempre pronti a colpire gli altri con le armi spesso implacabili della parola e della scrittura, senza cogliere che il presunto reo, il presunto colpevole non è qualcosa di così distante da noi. Forse, se imparassimo a osservarci di più, e a giudicare di meno, rivedremmo negli errori degli altri i nostri stessi sbagli. Le nostre cadute e i tentativi, a volte riusciti, a volte no, di sollevarci. Magari impareremmo, perdonando gli altri o non condannandoli subito, anche a essere più comprensivi nei confronti di noi stessi. Chissà. E. allora, ricordiamo le parole proprio della canzone “Santa Lucia”, dedicata a tutti quelli che non vedono, “Per chi vive all’incrocio dei venti/Ed è bruciato vivo/Per le persone facili che non hanno dubbi mai/Per la nostra corona di stelle e di spine/E la nostra paura del buio e della fantasia”.