Vale la pena tentare di comprendere meglio cosa si nasconde dietro alcune delle formule e degli slogan usati dalla nostra ineffabile classe politica per spingere il Paese fuori dalla crisi che lo attanaglia.
Contributo di solidarietà? Sì, anzi, forse sì. O meglio no.
Tobin tax sulle transazioni finanziarie? Assolutamente no! Però potrebbe essere materia di scambio.
Colpire le rendite finanziarie? Sì, ma solo un pochino.
Abbattere i costi e i privilegi dei politici? Con grande fermezza! A patto di non fare nulla di serio, con la tacita approvazione di tutto il Parlamento.
Scorriamo rapidamente questi pochi punti, così da farci un’idea più precisa su cosa vogliano significare e, soprattutto, quali categorie e interessi vengono colpiti.
La prima formulazione di contributo di solidarietà prevedeva un prelievo Irpef una tantum del 5% sugli stipendi compresi tra 90.000 e 150.000€ lordi annui, e del 10% oltre i 150 mila. Trattenuto mensilmente dallo stipendio e detraibile dalle tasse.
In soldoni, chi prende 5.000€ netti al mese – 100 mila lordi l’anno – finirà per prenderne 4.700, cioè 300€ in meno (calcoli del Corriere della sera di domenica 14 Agosto, pag. 10) Chi prende 12.500€ netti al mese (250 mila lordi annui), scenderà a 11.880€ (contributo di solidarietà reale annuo di 7.410€, stessa fonte). I commercialisti perdonino le semplificazioni.
Qualcuno dice che il sacrificio è eccessivo, ricordando che chi intasca 5.000€ netti al mese ha già visto il suo stipendio decurtato di ben 37.000€ in un anno, dalle tasse pagate anticipatamente. Non è l’unico argomento contrario: si trovano sotto la spada di Damocle di questa tassa solo i lavoratori dipendenti e i pensionati; che hanno contribuito al gettito totale dell’Irpef per oltre 137 miliardi e 286 milioni , pari al 93,7% del totale. In particolare, quelli che superano i 90 mila euro di reddito sono solo 511.534. Cioè l’1,2% del totale dei contribuenti a reddito fisso, ma pagano il 20% dell’introito totale dell’Irpef.
Quando invece il reddito imponibile – cioè prima delle tasse – medio di un commercialista è stato pari a 5,5 mila euro mensili e quello di un dentista meno di 4 mila. Ben al di sotto del contributo di solidarietà.
Il che dimostra senza ombra di dubbio che si chiede di più a chi ha già dato di più.
L’opposizione di centrosinistra e una piccola parte della maggioranza osteggiano con decisione il contributo applicato con i parametri precedentemente esposti, avvalorando l’osservazione maliziosa secondo la quale il Parlamento è pieno di avvocati, commercialisti e lavoratori autonomi. Che difendono i loro personalissimi interessi
Passando alla Tobin tax. – da non confondere con la Robin (Hood) tax, che riguarda i produttori di energia -, puntualizziamo che si tratta di un’imposizione estremamente leggera (tra lo 0,01 e lo 0,05%) sulle migliaia di transazioni finanziarie, a volte per importi colossali, che avvengono quotidianamente in tutte le piazze del mondo.
Nata come imposta limitata alle transazioni internazionali, si è pensato di estenderla agli scambi interni con l’obiettivo di colpire soprattutto la pura speculazione di chi acquista e rivende ripetutamente anche gli stessi titoli durante la giornata. Vi si oppongono, ovviamente, gli operatori finanziari – che lucrano vantaggiosissime commissioni su tali scambi, banche in testa -, ben consci che la Tobin tax frenerebbe la speculazione internazionale ma ridurrebbe i loro utili. Spesso giganteschi: 1,2 miliardi di utile netto per Deutsche Bank nel solo 2° trimestre 2011 e 1,32 semestrali per Unicredit!
Meglio che vada in malora mezza Europa che ridurre i premi per gli amministratori e i dividendi per gli azionisti.
Si oppone anche buona parte del centrodestra, con l’obiezione (fondata) che, se l’Italia fosse la sola ad applicare la Tobin tax, l’intermediazione finanziaria made in Italy si sposterebbe all’estero. Quindi, o si applica in modo eguale in tutti i Paesi o non se ne fa nulla.
Sulla tassazione delle rendite finanziarie, invece, sono quasi tutti d’accordo.
Per la semplice ragione che la tassazione italiana è la più bassa tra quelle del mondo occidentale. Paradisi fiscali esclusi. Va distinta dalla tassazione dei capitali, in quanto colpisce i guadagni. Tutti o quasi concordano a portare quella sugli utili derivanti dalla compravendita di azioni, obbligazioni e fondi al 20%. Lasciando al 12,50% solo quella sui titoli di Stato.
Fin qui tutto abbastanza normale per una democrazia parlamentare: i parlamentari si dividono sia per schieramenti che per sottoschieramenti, in difesa di quellli che ritengono gli interessi del proprio elettorato.
Sta a Governo e Parlamento trovare il punto d’equilibrio tra le diverse posizioni.
Quando si passa ai tagli dei costi e dei privilegi dei politici la divisione tra maggioranza e opposizione si rivela una vera e propria ammuina. Recitata allo scopo di lasciare tutto come prima. O quasi.
Il “quasi” è dimostrato dallo sbandierato taglio degli stipendi in misura doppia rispetto a quello dei lavoratori dipendenti: 10% sopra i 90 mila euro e il 20% oltre i 150 mila. Con un piccolo particolare: la decurtazione, gloria e vanto dei nostri eroi, riguarda solo lo stipendio base – pari a circa 5.500 euro netti al mese -, quando la maggior parte della busta paga è formata da diarie e rimborsi che non entrano a far parte dell’imponibile. I soliti Rizzo e Stella hanno scoperto che, grazie a questo meccanismo, il 45% dei senatori e il 60% dei deputati denuncia meno di 90 mila euro all’anno. La restante parte dei parlamentari supera i 90 mila euro l'anno perché esercita attività collaterali. Attività collaterali severamente vietate, in Italia, ai “normali” dipendenti pubblici a 1.500€ al mese e a tutti i parlamentari dei Paesi seri. Tra quelli che superano tale somma si distinguono i principi del Foro-deputati Giulia Bongiorno (2.048.397€) e Niccolò Ghedini (1.127.118€).
Per altri provvedimenti, chiacchiere, solo chiacchiere. Mirate a far passare la bufera. Della serie calati juncu ….