Pubblicato nel 2004 ma ancora oggi di stringente attualità, il saggio “Occidentalismo” (edito da Einaudi) spiega i motivi dell’odio nei confronti dell’Occidente. Odio che anima gruppi terroristici come al-Qā‘ida e l’ISIS ma anche altre formazioni ideologiche e politiche provenienti da tutti gli angoli del mondo, compresi intellettuali e pensatori non violenti e men che meno terroristici ma che tuttavia condividono la stessa critica alla modernità occidentale. Gli autori del testo, il filosofo Avishai Margalit e il giornalista Ian Buruma, coniano addirittura un neologismo, “occidentalismo”, per spiegare la visione distorta e riduttiva che i suoi nemici hanno dell’Occidente: una società senz’anima, senza radici, senza identità e senza fede, dedita solo ai commerci e ai piaceri sensuali.
«Sarebbe fuorviante sia consideralo di destra sia di sinistra», spiegano gli autori riferendosi alla visione “occidentalista”. Analisi lucida e spietata quella di Margalit e Buruma. Gli autori rintracciano l’origine dell’avversione per l’Occidente sorprendentemente in Europa, spiegando che poi è stata esportata in altre aree del mondo. Eppure la sua storia «non è delimitata da chiari confini geografici. L’occidentalismo può spuntare dovunque». Da cui la sua pericolosità.
Gli aspetti dell’Occidente sovente attaccati per la loro valenza simbolica sono tre: la città, moderna Babilonia, immagine della «perdita dell’idillio rurale» e «tomba delle culture locali radicate nel sangue e nel suolo»; il mercato, oggi divenuto sistema capitalistico onnipervasivo e quindi «cospirazione che mira a distruggere tutto ciò che è autentico e spirituale»; e la mentalità puramente calcolatrice, dedita alla quantità e non alla qualità, come direbbe il pensatore tradizionalista René Guénon. L’11 settembre incarna alla perfezione quest’odio. Quelle torri, scrivono gli autori, sono «simbolo del potere e della vitalità degli Stati Uniti, del dominio imperiale globale e capitalista, di New York City, la nostra Babilonia, simbolo di tutto ciò che molti odiano e allo stesso tempo desiderano».
Ciò che è avversato dagli occidentalisti è, in una parola, il Komfortismus. Questo termine è stato adoperato dal tedesco Werner Sombart (1863-1941) per indicare il benessere fisico e i beni materiali. «È appunto questa pusillanime tendenza borghese ad aggrapparsi alla vita, a rifiutarsi di morire per grandi ideali, a sottrarsi ai conflitti violenti ed evitare il lato tragico della vita, ciò che appare spregevole», spiegano con estrema chiarezza Buruma e Margalit.
E continuano: «i giapponesi durante la Seconda guerra mondiale «non combattevano solo contro gli Stati Uniti. Essi si consideravano intellettuali in lotta contro la corruzione occidentale del Giappone, contro l’avido egoismo capitalista, il vuoto morale del liberalismo, la banalità della cultura nordamericana». I giapponesi condividevano quella stessa concezione occidentalista comune ai nazisti e ai fascisti, agli islamisti radicali e ai nazionalisti indù. Questo filo rosso che lega insieme personalità e movimenti così distanti geograficamente e talvolta lontani nel tempo è sorprendente. E mostra anche che la lotta al Komfortismus è connaturata alla stessa cultura occidentale, come una maledizione.
Scrivono ancora gli autori in modo inequivocabile: «i suoi nemici vedono l’Occidente come una minaccia non perché offra un sistema alternativo di valori, e meno che mai una strada diversa verso l’utopia. Esso costituisce una minaccia perché promettendo benessere materiale, libertà individuale e dignità a vite non eccezionali, le svuota di ogni ambizione utopica». E così la Germania nazista, con tutto il suo odio per gli stati liberali democratici, «razionalisti, materialisti, razzialmente ibridati e per di più infettati da avidi giudei», diventa un caso emblematico di occidentalismo nel cuore dell’Occidente stesso.
Il libro “Occidentalismo” dipinge uno scenario se non altro interessante. Interessante perché le radici dell’odio per l’Occidente vengono rintracciate nell’Occidente stesso, al punto che «nessun occidentalista, comprese le frange più fanatiche dei guerrieri della fede, può sentirsi completamente libero dall’Occidente», confermano gli autori. Le conseguenze di questa affermazione sono tante, ma una fra tutte è la impossibilità per i nemici dell’Occidente di dirsi puri. E la purezza, va da sé, è proprio ciò che gli occidentalisti agognano con tutte le loro forze.
A dispetto di quanto oggi costantemente ripetuto, non c’è alcuno scontro tra l’Occidente e l’“altro”, cioè rispettivamente con l’islamista, con il coreano, con il russo e con l’estraneo in generale. Piuttosto, concludono Buruma e Margalit, «la storia che abbiamo raccontato in questo libro non è un racconto manicheo di scontro di civiltà. Al contrario, è un racconto di contaminazioni incrociate, di diffusione di idee sbagliate». Proprio da qui bisognerebbe cominciare, demistificando rigide dicotomie e sfatando dualismi fatali.