Messina- La storia dell’untore di Aids che ha scosso la comunità messinese è una storia di coraggio ed una battaglia contro i pregiudizi.
S., una splendida avvocatessa e straordinaria madre, oggi sarebbe ancora viva se i veleni di una cultura ipocrita non avessero infettato la sua vita allo stesso modo del virus dell’Aids.
E allora raccontiamola questa storia, affinchè non accada mai più.
Per la morte di S. ci sono diverse responsabilità. E’ stata uccisa da un ex compagno sieropositivo che, pienamente a conoscenza di essere malato, l’ha infettata, ha fatto un figlio con lei e quando ha saputo delle sue gravissime condizioni di salute non le ha detto la verità, lasciandola morire.
Ci sono poi le responsabilità di chi l’ha avuta in cura nel 2015 ma nonostante i sintomi collegabili all’HIV, si è lasciato fuorviare dai pregiudizi, ritenendo impossibile che una giovane libera professionista potesse aver contratto in qualche modo l’Aids. Quando ci si è accorti dell’errore, un anno dopo, era troppo tardi.
C’è un filo sottile che corre parallelo tra il comportamento dell’untore e quello dei primi medici: il pregiudizio.
L.D.D. messinese di 55 anni è stato arrestato con l’accusa di omicidio e lesioni gravissime, ma tra le carte dell’inchiesta emerge che ci sono almeno 4 donne contagiate ed un contesto nel quale il silenzio ha portato alla morte di una 45enne.
Le inchieste sono due: una ha portato all’arresto dell’ex compagno e la seconda punta ad accertare le responsabilità dei medici che per primi hanno avuto in cura l’avvocatessa.
E’ solo grazie al coraggio della sorella della vittima ed alla sua tenacia anche quando è stata presa per pazza visionaria, se altre donne si salveranno. Se il virus viene scoperto in tempo si VIVE. Anche se la malattia è conclamata, CI SI CURA E SI VIVE.
Il terribile vaso di Pandora si apre nell’estate del 2017, quando S. si spegne dopo due anni di calvario che ai primi medici appariva inspiegabile. Soltanto sul finire del 2016, quando ormai è troppo tardi, la diagnosi esatta è di Aids. Poche settimane dopo la sua morte, la sorella presenta denuncia e chiede giustizia.L
L’UNTORE- Dall’inchiesta emerge che L.D.D sapeva di essere affetto da HIV. La sua prima moglie, dalla quale ha avuto una figlia agli inizi del ‘90, è morta di Aids. Erano stati gli stessi medici dell’ospedale dove la donna aveva partorito ad invitare la coppia ad avere rapporti protetti proprio per via del virus conclamato.
L.D.D. sapeva sin da allora, eppure, nei successivi 20 anni ha continuato ad avere relazioni rifiutando qualsiasi rapporto sessuale protetto, concependo altri figli, in spregio a qualsiasi rispetto verso le compagne e la vita stessa. Alle compagne che avrà nel corso di due decenni dirà che la prima moglie è morta di tumore. La parola Aids appare ancora oggi impronunciabile, quasi fosse legata ad un mondo che deve restare nascosto. Sebbene, nel comportamento di L.D.D. come rileveranno i magistrati c’è molto di più del perbenismo e dell’ipocrisia: c’è la spregiudicatezza.
Dopo la morte della prima moglie infatti L.D.D. ha una seconda moglie ed una terza donna con la quale convive. Quest’ultima scoprirà soltanto molti anni dopo di essere stata contagiata da lui. Si lascia anche con la terza donna e nel 2004 inizia la relazione con S., rapporto che durerà fino al 2008 e porterà alla nascita di un bambino. Quando la convivenza con S. finisce lui intraprende una nuova relazione di due anni ed un’altra successiva e più lunga. Entrambe le donne scopriranno di avere contratto l’HIV.
In sostanza dopo la prima moglie, morta di Aids, il 55enne ha avuto rapporti scientemente non protetti con altre 5 donne, delle quali 4 contagiate (ed una di queste, S. appunto, morta di Aids)
Il modus operandi dell’uomo è sempre lo stesso: si rifiuta di avere rapporti protetti e chiede alle compagne di renderlo padre. Esemplare è la testimonianza della sua penultima compagna che ai magistrati descrive come ha reagito quando lei lo ha informata di essere diventata sieropositiva: “E’ rimasto impassibile ed ha mostrato indifferenza, per nulla allarmato o dispiaciuto della notizia”.
Ad S. dunque nasconde tutto nei 4 anni di relazione, finita nel 2008. Quando, nel 2015 apprende delle gravi condizioni della sua ex compagna e del disorientamento dei medici che non riescono a capire cosa abbia, continua a tacere. Nel 2015 lui non solo è consapevole di essere sieropositivo (ha fatto anche un test) ma ha le prove di aver contagiato le sue compagne. Eppure tace. Si fa inviare i referti, si fa descrivere i sintomi e suggerisce ad S. di curarsi con “integratori”. La lascia morire e contemporaneamente continua ad avere rapporti non protetti con la sua ultima compagna, chiedendole anche di avere un figlio.
Come sintetizzano i magistrati nell’ordinanza, tutto “ciò rende la condotta dell’indagato idonea e univocamente orientata a trasmettere il virus dell’HIV”.
Mentre S. si spegneva a Messina lentamente e dolorosamente, lui continuava con la sua condotta mettendo a rischio la sua nuova donna, che difatti ha contagiato.
“Le condotte contestate denotano una personalità criminale di assoluto rilievo, costituiscono l’indice di un pericolo di reiterazione dei reati che può essere fronteggiata solo ed esclusivamente con la misura di massimo rigore. La spregiudicatezza manifestata dimostra l’ assoluta refrattarietà rispetto a qualsiasi regola del vivere civile e l’assoluta noncuranza dell’altrui salute. Tenuto conto delle modalità di commissione dei delitti in contestazione, della spregiudicatezza manifestata, ogni altra misura appare inadeguata, anche in mancanza di certa documentazione dalla quale si possa desumere che l’indagato abbia un domicilio nel quale vive da solo”.
I MEDICI C’è poi un altro capitolo doloroso. S. sia pure contagiata, poteva salvarsi se solo i medici avessero diagnosticato la malattia sin da subito. Invece sono incappati in un errore: nonostante i sintomi di Aids hanno trascorso un anno alla ricerca di ogni altra malattia possibile. Solo nell’estate del 2016 un medico scopre la verità, ma ormai è troppo tardi. Anzi la terapia con immunodepressivi ha di fatto spianato la strada all’agonia.
C’è quindi una seconda inchiesta per accertare eventuali responsabilità dei medici. In tal senso è chiara la perizia medica redatta da Cristina Mussini, professore ordinario di Malattie Infettive presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e Francesca Ceccherini-Silberstein, professore associato di Microbiologia presso l’Università di Roma “Tor Vergata”.
Le due professioniste scrivono: “La storia clinica della signora è quella di una paziente con infezione da HIV e presentazione tardiva, non diagnosticata in modo tempestivo e sicuramente mal gestita”.
Purtroppo oggi in Italia la diagnosi tardiva rappresenta il 36,1% delle nuove diagnosi di Aids. Un dato allarmante legato al fatto che le persone non hanno cognizione del rischio corso e ai medici non viene in mente che possa trattarsi di una infezione da HIV. La conseguenza è che una diagnosi tardiva comporta una mortalità del 20%. Nel caso dell’avvocatessa messinese i medici si sono trovati in un disorientamento diagnostico e pur non trascurando la paziente, sottoponendola a una serie di esami, compresi i test per virus epatici, hanno ignorato l’infezione da HIV .
“ E’ possibile che l’errore diagnostico sia stato indotto dal fatto che la signora non appartenesse ad una cosiddetta categoria a rischio di infezione da HIV. Un pregiudizio del genere, non dovrebbe mai influenzare la professionalità medica. Infatti dovrebbe essere il quadro clinico, e non l’appartenenza ad una determinata categoria, a far includere l’infezione da HIV nella diagnosi differenziale. Trattandosi di una malattia a trasmissione anche sessuale, può avvenire in chiunque abbia rapporti sessuali”.
Un errore del genere ha segnato per sempre il destino di S, come se l’Aids dovesse essere relegato a un mondo oscuro. Un errore che un medico non dovrebbe commettere, come si legge nella perizia: “Sarebbe stato sufficiente andare su internet (Google) ricercando linfocitopenia cause e sarebbe apparsa AIDS come prima risposta”.
Il coraggio di una donna, la sorella della vittima che nell’estate 2017 si è rivolta ai magistrati, deve essere d’esempio. E’ un urlo che squarcia un mondo che vive e si fa guidare dalle apparenze, dalle etichette.
S. non sarà restituita al suo bambino, alla sua famiglia, alla sua carriera, ma leggendo questa storia forse si potranno salvare altre vite. Se anche solo una donna, solo un uomo, solo un medico, dovesse imparare da questa storia, allora questa battaglia non è stata vana.
Rosaria Brancato