Chiuso il cerchio sull’omicidio di Stefano Marchese. Le indagini della squadra mobile e della Dda di Messina fanno definitivamente luce su mandanti ed esecutori che, il 18 febbraio 2005, uccisero l’allora giovane ventisettenne messinese con sei colpi di pistola. Ad incastrare tutti, le ultime testimonianze del boss Gaetano Barbera, già condannato in primo grado per l’omicidio Marchese e adesso collaboratore di giustizia. Finiscono in manette con l’accusa di omicidio e porto illegale d’armi Marcello D’arrigo, 51enne pregiudicato già detenuto, Salvatore Irrera detto “Carrubba”, 37enne già detenuto, Rosario Vinci, 55enne, e Giovannino Vinci, 74enne già ai domiciliari.
Secondo la ricostruzione fatta degli inquirenti, quel pomeriggio Stefano Marchese si trovava nella piazzola del distributore di carburante Esso dell’Annunziata, dove lavorava da qualche mese in regime di semilibertà. Fu giustiziato lì, prima con quattro colpi di pistola alle spalle e poi, mentre tentava di scappare, con altri due in fronte e sulla tempia. Sei i colpi in tutto, esplosi da una pistola calibro 7.65 tenuta in mano da Gaetano Barbera. Insieme a lui, a guidare quell’Honda 600 Transalp con cui poi l’assassino scappò, vi era Salvatore Irrera.
Un delitto efferato, un’esecuzione in piena regola che gli investigatori riuscirono subito a collocare nel quadro della lotta tra clan mafiosi della zona Giostra. Grazie ad indagini, ricostruzioni e testimonianze dei collaboratori di giustizia Nunzio Bruschetta, Salvatore Centorrino, Santo Balsamà e Tommaso Marchese (padre di Stefano) ben presto si fece luce sugli esecutori materiali del delitto. Per l’omicidio di Marchese, nel 2009, vi furono due indagati: Gaetano Barbera e il suo affiliato Salvatore Irrera.
Nel 2011, poi, il sostituto procuratore della Dda Vito Di Giorgio chiese e ottenne l’arresto di Barbera facendo emergere come, nello specifico, il delitto si inserisse nella lotta tra due clan ben definiti, quello di Giuseppe Minardi e quello di Gaetano Barbera.
Secondo le ipotesi, fu la decisione di Minardi di voler contrastare il rivale per prendere la leadership di Giostra a far scatenare il delitto.
Nonostante si trovasse in carcere, infatti, Minardi aveva deciso che una volta tornato in libertà avrebbe fatto di tutto per mettersi contro Barbera e sottrargli il controllo delle estorsioni a Giostra. Gli inviò anche una lettera, a cui Barbera rispose passando ai fatti, e cioè colpendo una delle persone più vicine allo stesso Minardi, Stefano Marchese.
A siglare il provvedimento di custodia cautelare, il Gip Antonino Genovese, su richiesta dei sostituti procuratori della Dda di Messina, Vito di Giorgio, Camillo Falvo e Maria Pellegrino.