Ancora emozioni con il secondo appuntamento del cartellone artistico ospitato, quest’anno, dalla saletta ARB service di via Romagnosi. In scena, la vulcanica e ammaliante Claudia Fichera (regista e protagonista) riporta in vita un mito senza tempo che, come tutti i miti, attraverso il tempo ci parla, e ci scava dentro.
Io, Colapesce ripropone la ben nota leggenda nostrana, ma in una chiave del tutto nuova. Il ragazzino, metà umano e metà pesce, che cavalca le onde e si butta in mezzo alla tempesta, nel blu più profondo, dove nemmeno il più audace dei marinai osa arrivare… non è che il punto di partenza per una riflessione sulla natura umana, con i suoi slanci ed i suoi blocchi, le sue piccole ossessioni ed i suoi impeti di grandezza.
"Buonasera… Ecco a voi… Nicola Pesce", esordisce il protagonista, con gli occhi bassi, inciampando nelle parole, come se poco credesse ormai al clamore che un tempo suscitava quel nome. Sono passati 800 anni da quando meravigliava con le sue prodezze, correndo per mare e per terra affamato di vita e di avventura, euforico per ogni alito di novità, attonito ed ingordo di fronte alla bellezza del mondo; milioni di giorni e di notti da quando re Federico lo volle per sé, ne fece il suo pupillo, istruito e ammaestrato, da esibire come un’attrazione… da quando, ubriacato all’idea di essere paladino instancabile, al servizio del Suo re e della sua terra, (“ingenuo!”) si lasciò spogliare della sua stessa natura, libera e indomabile come quella dei pesci del mare. E adesso? Dell’eroe non resta che un bambino spaventato, certo di niente tranne che del proprio nome. Un fantoccio ripieno di tutto, fuorché di se stesso. Per districare la matassa, avrà bisogno dei saggi consigli della pescivendola (Carmelina Trimarchi) figura simbolica, un po’ mamma un po’ grillo parlante, che saprà ripescare, dal fondo del cuore del protagonista, quella passione addomesticata e svilita.
Il Colapesce di Claudia Fichera cristallizza l’immagine dell’istinto negato, l’euforia del bambino che siamo stati, con quella sana incoscienza capace di farci vivere il momento, godere della vita fino in fondo, senza dovere a tutti i costi dare alle azioni una funzione, o una spiegazione. E’ l’irrazionale, rinchiuso in un labirinto di condizionamenti, ruoli imposti e barriere mentali, ghermito e intrappolato come un animale in gabbia, che grida forte per venire fuori. Eppure, il messaggio conclusivo è che possiamo ancora essere salvati, perché l’eternità esiste anche in un singolo istante di autenticità.
Il recupero della tradizione è sempre un atto ammirevole, ma di riuscita incerta. In questo caso sono state toccate tutte le corde giuste, dalla stesura del testo (di Francesco Favara) all’intera costruzione dello spettacolo. Bella l’intesa tra le due interpreti, funzionali le scelte scenografiche, forte l’energia, capace di muovere il pubblico senza però bacchettarlo. Risultato notevole.
Laura Giacobbe