Vent’anni di lotta alla mafia per l’associazione “Rita Atria” di Milazzo

L’antimafia, di questi tempi, è diventata una moda, un valore aggiunto a prescindere dai fatti, dalle azioni che dovrebbero incarnarla. Contro questa visione, in occasione del suo ventennale, l’associazione antimafia “Rita Atria” ha organizzato al castello di Milazzo un viaggio nella propria “memoria attiva”, fatta di storie e personaggi lontani dalla ribalta mediatica, ma che sono stati fondamentali nel cammino della lotta alla mafia.

Nell’inverno del 1994, Nadia Furnari e Santina Latella, allora studentesse, fondano a Milazzo l’associazione, dedicandola a Rita Atria, una ragazza di 17 anni, che voleva essere libera dai codici mafiosi, che ha denunciato e messo in discussione la sua famiglia, che voleva conoscere “un altro mondo, fatto di cose semplici, ma belle… un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona”; il suo volo – solitario, come troppo spesso accade – è la testimonianza più autentica di un percorso travagliato, ma sempre coerente, nel tentativo di scuotere uno Stato assente e una società civile indifferente. Rita Atria si è suicidata a Roma il 26 luglio del 1992, una settimana dopo la morte di colui che era diventato il suo padre spirituale: Paolo Borsellino, che aveva raccolto le sue testimonianze sulle dinamiche mafiose di Partanna, Sciacca e Marsala.

Ma l’associazione comincia a nascere già dal 1992, a Pisa, dal sostegno a chi lotta per fare chiarezza sui misteri della strage di Ustica: Mario Ciancarella e Sandro Marcucci, ufficiali dell’aereonautica militare, che hanno pagato a caro prezzo il loro impegno per la verità. Ciancarella fu radiato dalle forze armate, anche se adesso – dopo tanti anni e un percorso sostenuto insieme all’associazione – le perizie calligrafiche, sia di parte che del Tribunale di Firenze, hanno accertato che la firma del Presidente delle Repubblica – a suo tempo Sandro Pertini – sull’atto di radiazione è stata falsificata; Sandro Marcucci non è più con noi, morto ufficialmente in un “incidente” nel febbraio del 1992 – insieme a Silvio Lorenzini – prima di poter testimoniare al processo sulla strage, ma i suoi compagni di lotte non si sono arresi e nel 2013, grazie a un esposto dell’associazione presentato alla procura di Massa, il caso è stato riaperto.

“Finché il sangue dei figli degli altri varrà meno del sangue dei nostri figli, fin quando il dolore degli altri per la morte dei loro figli varrà meno del nostro dolore per la morte dei nostri figli, ci sarà sempre qualcuno che potrà organizzare stragi in piazze, banche o stazioni, su treni o su aerei, con bombe o missili, con la certezza di rimanere impunito”. Con queste parole Sandro Marcucci esortò Mario Ciancarella a continuare in questa lotta anche dopo la radiazione, nel solco del “senso costituzionale dell’essere militari, che è tutto il contrario di essere soldati” – continua Mario – “il soldato è colui che lavora per il soldo. Il Militare è invece impegnato “gratuitamente”, è militante. Un merito che riconosco a questa associazione è di avere sposato il sangue dei figli degli altri, di non aver mai lasciato nessuno da solo per la propria strada”. Per far comprendere il senso di questo impegno, Mario cita la frase di un suo educatore giovanile: “Abbiamo una o due volte nella vita la possibilità di essere degli eroi, ma tutti i giorni abbiamo la possibilità di non essere dei vigliacchi”.

Poi le stragi di Capaci e Via D’Amelio, Rita Atria, l’incontro a Pisa con Antonino Caponnetto – il magistrato che guidò il pool antimafia ideato da Rocco Chinnici – che diventò “nonno Nino”. Nadia, portando con sé una frase di Sandro Marcucci – “Con il nostro impegno, e non con le parole o i principi, bisogna avvicinarsi agli altri” – prende lo zaino e va in Sicilia, a Palermo, per cercare di capire. “Un mio amico della polizia mi portò in un garage dove c’era la macchina di Falcone; c’era ancora la scarpa di Francesca Morvillo, e le macchine delle scorte. Non si può dimenticare…” – racconta Nadia – “tornata a Pisa, raccontai tutto. Una persona mi disse: – Ora tu ci credi. Attraverso i tuoi occhi, attraverso il tuo racconto, io riesco a vedere -. Non si può teorizzare la lotta alla mafia se tu le persone non le vedi, non le conosci, non le racconti”.

Nel cammino pisano, durante un’iniziativa sulle donne in lotta, insieme alle madri di Plaza de Mayo – ognuna delle quali aveva lottato e lotta per ogni giovane desaparecido, e non solo per i propri figli – e ad alcune donne palermitane, l’incontro con Michela Buscemi,
una delle primissime testimoni di giustizia, che al maxiprocesso testimoniò contro gli assassini dei suoi fratelli: “Ho dovuto rompere i contatti con la mia famiglia. Sono la maggiore di dieci figli, e sia mia madre, sia i miei fratelli si schierarono contro di me per la mia scelta” – racconta con intensità Michela – “avevo un bar, ho dovuto chiuderlo perchè la gente aveva paura a venirci. I miei familiari mi definivano spiona della questura. Per telefono, mi auguravano che uccidessero i miei figli. Ho deciso che quella famiglia per me non esisteva più”. L’incontro con Nadia e una nuova famiglia, l’associazione, con la quale condividere la sua storia, in un percorso dove l’antimafia non è fatta solo di poche figure eroiche, ma è una storia collettiva di donne e uomini che hanno testimoniato mettendo in gioco la propria vita, le proprie sicurezze, i propri affetti.

Poi, a Milazzo, Nadia, Santina e tanti altri ragazzi organizzano un incontro con le scuole milazzesi al Paladiana, invitando Antonino Caponnetto e Rita Borsellino, senza soldi e senza l’appoggio dell’amministrazione comunale. Da questo episodio – e in particolare dall’eccezionale risposta degli studenti all’incontro – l’associazione prenderà definitivamente coscienza del suo ruolo e delle sue potenzialità.

Tra le persone che sono state vicine all’Associazione, anche in momenti difficili, la magistrata Franca Imbergamo, che si è occupata del processo sull’omicidio di Peppino Impastato. Oggi svolge il suo lavoro alla Procura Nazionale Antimafia “senza se e senza ma, e senza grandi riflettori. Sono qui come amica di Nadia e dell’associazione, fondamentale non soltanto per i cittadini, ma anche e soprattutto per la magistratura. Noi facciamo un mestiere difficile: la magistratura è una struttura di potere, non sempre quello che facciamo potrà o dovrà piacervi. Questo è il gioco democratico, è il gioco dell’applicazione delle leggi” – spiega il magistrato, – “ci vuole molto più coraggio ad essere qua, a denunciare come associazione, che a farlo come magistrato. Gli occhi della gente per bene sul territorio, per noi, sono essenziali. È molto più importante fare il proprio mestiere di cittadino quotidianamente, che essere eroi per un giorno. Io sono siciliana, vengo dalla provincia di Agrigento, un paese ad alta densità mafiosa, e so che cosa significa la penetrazione della mafia nel territorio, so che cosa può significare dover affrontare certe situazioni da semplice cittadino. E questo chi fa il mio mestiere non deve mai dimenticarlo. Stiamo riducendo il fenomeno delle mafie ad una questione di ordine pubblico, ma non saremmo arrivati a questo punto se non avessimo avuto delle collusioni istituzionali. Fino a quando questo paese non avrà il coraggio di aprire il vaso di Pandora e guardare dentro quella fogna, c’è il rischio che possa ripetersi quella tragica stagione. Le stragi sono storie che dobbiamo avere il coraggio di raccontare tutti insieme, da sola la magistratura non può farlo. Questa è una democrazia che deve crescere, e per farlo ognuno deve prendersi le proprie responsabilità”

E ancora le storie di Graziella Campagna, uccisa per aver trovato, in una camicia da lavare – nella tintoria in cui era impiegata – un documento che avrebbe potuto interrompere la latitanza dei mafiosi palermitani Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera, esecutori materiali dell’assassinio; di Ulisse, nome in codice di un uomo che ha testimoniato su fatti che non lo avevano colpito direttamente e per questo ha dovuto sottoporsi al programma di protezione speciale dei testimoni come “collaboratore di giustizia”, visto che lo status di testimone di giustizia è stato inserito solo nel 2003; di Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese, testimone contro la ‘ndrangheta, che ha deciso di rimanere nella sua terra, nella sua casa (che, per proteggersi, ha dovuto blindare), per continuare a vivere in Calabria e tenere in vita la sua impresa.

“Secondo me l’antimafia è molto donna…” dichiara Dario Russo, assessore alla cultura del comune mamertino, che segnala l’attenzione data alle lotte delle donne dall’amministrazione di Milazzo, anche attraverso l’intitolazione di alcune strade alle gelsominaie – donne che negli anni ’50 lavoravano tutta la notte raccogliendo fiori per poche lire, e che hanno lottato contro lo sfruttamento a cui venivano sottoposte -, ad Anna Cambria, giovane studentessa di Milazzo, uccisa a soli 16 anni, da un proiettile destinato a un altro mafioso; a Graziella Campagna, Ilaria Alpi, Mariagrazia Cutuli, Ipazia, Goliarda Sapienza.

Seguendo questo filo conduttore nasce l’impegno dell’associazione contro il femminicidio, insieme all’associazione SEN di Licodia Eubea, per non dimenticare la storia di una giovane donna, Stefania Erminia Noce, brillante studentessa e attivista siciliana uccisa da Loris Gagliano, il suo fidanzato, che non accettava la fine della loro relazione, nella sua casa a Licodia Eubea il 27 dicembre 2011 insieme a suo nonno, Paolo Miano.

Per sostenere questo impegno, l’associazione Rita Atria ha scelto di inserire nel proprio statuto la lotta contro il femminicidio e la violenza di genere, così da potersi costituire parte civile nei processi, e quella per i diritti LGBT. Per questo l’associazione ha espresso con forza la propria contrarietà per la scelta, nell’ambito del processo per l’omicidio di Stefania Noce, di un perito che ha definito i gay come “malati da curare, individui “non normali”, assimilabili alle persone disabili”, perché questa scelta è offensiva per tutte e tutti e per la memoria di Stefania, che ha sempre lottato contro ogni forma di violenza o violazione dei diritti umani.

L’associazione ha da tempo varcato i confini della Sicilia e, tra gli ultimi presidi nati, c’è quello di Bari, animato da giovanissimi attivisti, il cui impegno sul territorio si è manifestato in tante iniziative; in particolare, sono intervenuti a seguito di una serie di sparatorie, portando in piazza quasi 300 persone.

Le battaglie dell’associazione sono sostenute da alcuni avvocati, Goffredo D’Antona, Carmelo Picciotto, Nino La Rosa, che prestano gratuitamente e con passione la loro professionalità. Tra le tante battaglie legali spiccano la lotta NO MUOS e la costituzione come parte civile nel processo sul parco commerciale di Barcellona Pozzo di Gotto, a seguito dell’inchiesta scaturita proprio da un esposto dell’associazione e che ha coinvolto nomi eccellenti dell’imprenditoria barcellonese, a cominciare dall’avvocato Pio Cattafi.

Si è chiusa così una serata che, oltre al bilancio di vent’anni di attività, guarda al futuro, alla diversificazione della lotta per la libertà, ma sempre nel solco tracciato dalla memoria storica, attiva, portatrice di quei valori che, per un siciliano, dovrebbero essere fondamenta del proprio senso morale; e che invece, oggi, sono stati ridotti a merce elettorale, se non addirittura dimenticati. E, nella lotta alla mafia, dimenticare vuol dire rinnegare.

Giovanni Passalacqua