Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Giuseppe Cannavò, sul tema della fragilità emotiva delle nuove generazioni e sulla capacità degli adulti e della scuola d’affrontare il problema.
Sono papà di una liceale della nostra città quasi coetanea dello studente ricordato dalla sua insegnante. Mi interrogo come la professoressa, nella lettera, sulla nostra capacità di comprendere il disagio che pervade i nostri ragazzi. Sono stato rappresentante di classe per due anni e per due anni ho provato a parlare di disagio, di empatia, di dialogo, di tematiche che coinvolgevano direttamente e necessariamente la scuola, le famiglie e soprattutto i ragazzi. Gli ultimi anni hanno profondamente cambiato la crescita e lo sviluppo dei giovani date le limitazioni e le difficoltà emerse con le restrizioni covid. Purtroppo mi sono trovato davanti una scuola impreparata come istituzione al supporto dei ragazzi con docenti presi dal compilare schede, organizzare attività spesso inutili, dal fare lezioni ricche di nozioni come se i ragazzi fossero contenitori da riempiere, presidi presi dall’amministrare e far fare bella figura al liceo e preoccupati del buon nome della scuola.
Nessuna interazione con le famiglie, nessuna interazione con i ragazzi stessi impreparazione assoluta all’ascolto attivo e anche passivo…. Come se il comprendere, il capire il disagio interiore sia cosa da medici e comunque estranea ai compiti della scuola stessa. Mi sono chiesto ma in che razza di posto vivono i nostri ragazzi? Li affidiamo per gran parte del tempo con fiducia a gente impreparata a cogliere i segnali che ci mandano e non siamo capaci di agire per aiutarli. Non so alle volte se ci si rende conto che la scuola e il periodo formativo sono un tempo fondamentale nella crescita e formazione dei ragazzi, così come la famiglia anche la scuola sono soli ad affrontare situazioni fino a ieri impensabili.
Tutto è nuovo e richiede soluzioni nuove ma che in molti non sanno o non hanno il coraggio di provare o di approntare. Una vita spezzata nel suo crescere è un dolore indicibile per me come genitore, per la scuola che ha fallito nella sua missione educativa, per la società tutta. Non ho la medicina che salva e non so chi la può avere. So però che non basta riempirci di parole, di corsi Pcto, Pon, convegni, conferenze, attività superflue.
Serve scavare nel profondo, guardare al cuore e alla mente, alle sensibilità al carattere dei ragazzi. Tirare fuori da loro quanto di meglio e bello sanno fare e possono dare. È una sfida che significa crescere. Noi adulti non siamo infallibili ma abbiamo il dovere di accettare la sfida anche se sbaglieremo. Se si cade, ci rialzeremo. Ma dobbiamo finirla con il preoccuparci delle cose inutili.
Dobbiamo finirla di valutare i ragazzi per i programmi spesso arretrati e vuoti. Dobbiamo smettere di essere chiusi nelle nostre valutazioni. In fondo, ai docenti chi li valuta? Ci avete mai pensato? il peso di un giudizio alle volte è peggio di una condanna. Apriamo un dibattito su questi argomenti perché non vorrei che Messina debba ancora piangere la perdita di un suo figlio.
Giuseppe Cannavò