Liberamente ispirata all’Odissea omerica, la mise en scene che il 23 agosto è stata rappresentata nel suggestivo Teatro antico di Tindari, è stata una rivisitazione per certi versi fedele agli schemi del poema “de quo”. Giuseppe Argirò, autore dello script, ha anche condotto la regia, guidando con una certa maestria una Iaia Forte altamente ispirata e istrionica. Il corpo e la parola dell’attrice, in continua dinamica trasformazione, con ritmi serrati e stile colloquiale, hanno spaziato da un ruolo all’altro, ma sempre generando ogni metamorfosi come credibile e appetibile per gli spettatori. Si è trattato in realtà di una lettura drammatizzata, sapientemente condotta dalla maestosa unica protagonista, che si è però calata in ognuno dei ruoli della piece, ponendosi totalmente al servizio della scrittura. Il registro è variato a più riprese, dal brillante al grottesco, restituendoci personaggi da un canto rispettosi della tradizione, ma vivi e scevri della loro patina di antica creazione, rendendoli contemporanei e intrisi di umanità, in ciò anche con l’ausilio di una efficace musica registrata di sottofondo. Da Nausicaa, attraverso il racconto delle vicissitudini, a Polifemo (brillantemente espresso mentre sta mangiando i malcapitati compagni di Odisseo, canticchiando la celebre melodia del “Factotum” dal rossiniano Barbiere di Siviglia, con parole rivisitate per l’occasione) alla maga Circe, a Tiresia e l’amata madre nell’oltretomba, alle Sirene, a Scilla e Cariddi, con la tempesta che finisce di decimare i suoi compagni, all’approdo nell’isola di Ogigia presso la dimora di Calipso, ove Ulisse si fermerà per ben otto anni, fino a giungere alla terra dei Feaci, ogni elemento è in uno antico e rinnovato. La drammaturgia, come la titolazione suggerisce, ha posto in posizione centrale Penelope, nell’Odissea rappresentativa di una dimensione tipica che sovente si attaglia alle figure femminili, soprattutto se legate a eroi o comunque a uomini forti, l’attesa, cioè, e il rimanere tenacemente fedeli ad una tensione ideale che sconfina nella solipsia, nella dolente sofferenza, quale donna presente ma immobile, statica, quasi una “res derelicta”: la moglie dell’eroe non può che attendere – come eredità omerica – il suo è un destino sospeso. Questa riscrittura, invece, ha reso l’eroina – divenuta eroe – consapevole del suo essere identità separata, pur se tale coscienza non ha potuto che accompagnarsi ad un intenso lavorio psicologico per andare oltre il patimento passivo: dalle sue battute iniziali “L’amore è un castigo per non essere riusciti a restare soli” a quelle finali “È giusto che il ritorno di Ulisse coincida con la partenza di Penelope”, un mutamento interiore si è compiuto. Una narrazione, insomma, che ha affrontato una tematica sempre, e ai nostri tempi più che mai, attuale, di una contemporaneità spiazzante, suggerendoci di “vedere” con sguardo rinnovato figure mitologiche tipizzate, per renderle più aderenti all’attuale sentire. L’assenza di elementi scenici e i costumi di Penelope, ben aderenti, hanno peraltro contribuito alla perfetta costruzione di uno spettacolo gradevole e con valenza formativa – realizzato dal Teatro dei due Mari, che ha preannunciato, attraverso il suo direttore artistico, la programmazione futura – inserito nell’ambito della riuscita 63esima edizione del Tindari Festival. Ovazioni per la strepitosa performance di Iaia Forte.