No alle attenuanti generiche per tutti gli imputati, neppure al pentito Biagio Grasso. Solo qualche lievissimo “sconto di pena”, per aggiustare il tiro rispetto alla sentenza di primo grado, e soltanto per cinque imputati su 19 alla sbarra.
Fa pochi sconti di pena la Procura Generale al processo d’appello per la cellula messinese dei Santapaola alla sbarra al processo Beta. Addirittura per un imputato, che era stato assolto dall’accusa più grave in primo grado, chiede di ribaltare il verdetto e decidere una pesante condanna.
Stamattina il PG Maurizio Salamone ha concluso la sua requisitoria chiedendo in buona sostanza la conferma della sentenza emessa in primo grado per tutti gli imputati del processo abbreviato il 9 ottobre del 2018. Così, Salamone ha invocato la condanna a 10 anni e 8 mesi per N. L., che era stato invece assolto in primo grado dall’accusa di far parte dell’associazione mafiosa e condannato a poco più di un anno. Per il procuratore generale, L. era socio quasi alla pari di Vincenzo Romeo nel settore del gioco d’azzardo.
Invocata la riduzione della condanna a 10 e 11 mesi per i fratelli Lipari, rispettivamente per Antonino e Salvatore, con l’assoluzione per non aver commesso il fatto da una delle accuse contestate. Assoluzione parziale anche per Vincenzo Romeo e Mauro Guernieri, non estorsione ma esercizio arbitrario delle proprie ragioni, quindi per questa accusa la pena deve scendere a 9 mesi per Guerniere e un mese e 15 giorni per Vincenzo Romeo (che era stata calcolata in continuazione con le precedenti condanne).
Sconto di pena anche per Antonino Romeo, che va considerato colpevole di appartenere all’associazione mafiosa “di famiglia”, ma per cui vanno escluse le aggravanti: la pena scenderebbe a 8 anni e 2 mesi. Per tutti gli altri, le condanne emesse in primo grado vanno confermate in toto, senza il riconoscimento delle attenuanti generiche, da negare anche a Grasso, visto che già in primo grado ha beneficiato delle attenuanti riconosciute in quanto collaboratore di giustizia.
Sono queste le richieste che Salamone ha consegnato alla Corte d’Appello, dopo aver ripercorso per intero l’inchiesta antimafia che ha portato in cella i Romeo-Santapaola, ovvero i nipoti del capo clan catanese Nitto, che a Messina avevano investito in sale slot e gioco d’azzardo on line, nello smaltimento dei rifiuti sanitari e nel mattone, con la complicità dei professionisti del mondo degli affari. Erano quasi le 13.
La Corte ha poi ascoltato Vincenzo Romeo, che ha voluto rilasciare spontanee dichiarazioni, sedendosi al banco e parlando per circa un’ora. Il più grande dei Romeo ha ricostruito la sua “ascesa” nel mondo delle slot, raccontando di esserci entrato perché nel settore operava il suocero, e nel quale operava in assoluta legalità.
Ha poi negato ogni rapporto criminale con la famiglia d’origine. Lui con gli zii e i cugini catanesi non ha mai avuto altro a che fare che qualche rapporto formale dovuto a vicende private. I giudici hanno poi aggiornato il processo al prossimo 9 gennaio, quando ascolteranno i primi difensori, gli avvocati Nino Cacia, Tancredi Traclò e Roberto Colosi.
L’operazione Beta, condotta dal Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri, ha svelato gli affari della famiglia Romeo a Messina, i loro rapporti con gli uomini d’affari e gli altri grossi imprenditori, non soltanto messinesi. Secondo i carabinieri la forza dei Romeo, la spinta che gli ha consentito di crescere imprenditorialmente, era proprio la famiglia d’origine, anche se i nipoti di Santapaola sono praticamente cresciuti a Messina, dopo i blitz a Catania.
Dopo l’arresto, il loro socio milazzese Biagio Grasso ha scelto di collaborare, in parte confermando le scoperte degli investigatori, in parte svelando nuovi intrecci. Le sue dichiarazioni hanno contribuito così al secondo filone di indagine, l’operazione Beta 2.