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Ouminicch’: quando il sonno della ragione genera mostri

MESSINA. “A quelli che non sanno spalancare le porte, scardinarle e abbatterle. A quelli che non hanno mai avuto una porta da spalancare, da scardinare, da abbattere. A quelli che non sanno cos’è una porta”.

Così si presenta Ouminicch’ di Rosario Palazzolo, testo del 2007 che, invecchiato molto bene, chiude la la rassegna estiva “Fuori in scena 2024” del Teatro dei 3 Mestieri.
Il regista palermitano torna a conturbare il pubblico del Teatro dei 3 Mestieri, stavolta in scena insieme a Salvatore Nocera

Il Sacramento della pesatura

Una stanza buia, illuminata solo da una luce rossa, una porta bianca di lato, una radio e un telefono fisso. All’interno della stanza due uomini, Trentasetti (Palazzolo) e Trentaquattru (Nocera), ai fianchi di una bara.

Ad averli portati lì sono le loro “debolezze”: Trentasetti non è stato capace di uccidere un cane, mosso dalla sua sensibilità, Trentaquattru è zoppo. I due parlano, si raccontano, si confrontano, in attesa di una chiamata che darà avvio al loro destino: un gioco mortale fatto di parole dal quale sopravviverà solo uno.

Arrivata la chiamata, ha inizio il Sacramento della pesatura. Si parte dalla vestitura e si scopre la dote: abiti eleganti da indossare, un gessetto e un cacciavite la cui funzionalità non è chiara. Poi, spazio al gioco: i due contendenti si siedono ai lati della bara e si sfidano a colpi di parole, ogni punto conquistato viene segnato con il gessetto sulla giacca dell’avversario, nella parte del corpo cui, a fine partita, il vincitore deciderà di sparare, per uccidere il vinto.

Le parole hanno sempre un peso, possono far scoppiare guerre o creare pace, ma le parole protagoniste del gioco dei due ouminicch’ non si fanno portatrici di alcun significato, sono ben più pericolose parole senza verità, la loro è una pesatura senza peso, una roulette russa fatta di regole plasmabili ogni volta a piacimento del più forte, una ritualità mortale priva di ogni valenza.

Trentasetti e Trentaquattru sanno di dover morire, sanno di combattere per un destino dal quale non vi è via di fuga, per cui non resta loro che affidarsi a santini, devozioni, superstiziose spiritualità. Ma quando, invece, la via di fuga riescono a trovarla, non la seguono, forse animati soltanto da un “curaggio a tipo sciancato”. Preferiscono obbedire a quelle leggi non scritte che stanno determinando la loro vita, e la loro morte. La presenza del cacciavite, che adesso rivela la sua utilità, lascia pensare che quel sistema malato abbia già previsto tutto, ogni possibile alterazione, errore o cambio di piano. Non vi è, quindi, possibilità di scelta?

Ritualità senza senso

Il folle rito continua, divertendo il pubblico pur in mezzo alla sua tragicità che spezza il fiato. È merito della potente interpretazione dei due attori, del registro drammaturgico di Palazzolo sempre incalzante, martellante, impetuoso, con il suo linguaggio ricco di tutte quelle sfumature che solo il dialetto palermitano può dare.

È un folle rito che ci riguarda tutti. Non c’è un solo destinatario dell’invettiva di Palazzolo, l’autore vuole distruggere ogni fanatica ritualità, che sia quella religiosa, folkloristica, mafiosa, o, più semplicemente, qualsiasi tipo di rito senza significato cui siamo diventati vittima nella nostra quotidianità.

Cerchiamo di fuggire, di slegarci da queste imposizioni illogiche che ci privano della nostra identità e ci rendono numeri, trentaquattro, trentasette e così via, ma non ci riusciamo, richiudiamo la porta verso quella libertà che diverrebbe responsabilità e necessaria ricerca di senso. Sembra più semplice abbandonarci al controllo di leggi assurde, imposte non si sa da chi né come, ma di cui diventiamo succubi.
Sono le stesse leggi di una società che, già nel 2007 ma più che mai adesso nell’era del potere del digitale, ci rende dei contenitori privi di contenuto, automi controllabili senza volontà.

Ed è così che, come direbbe Francisco Goya, il sonno della ragione genera mostri. Nel momento in cui non siamo più capaci di pensare, nel momento in cui la ragione si arrende dinanzi al dominio di un irrefrenabile irrazionale, l’unica legge possibile diviene quella del più forte. L’assenza di senso genera il trionfo della violenza, la vittoria di chi ha il coraggio di sparare per primo (metaforicamente e non).

E se Trentasetti e Trentaquattru sono vittime di questo gioco mortale per via delle loro “debolezze” che li renderebbero ouminicch’, si trovano, invece, a diventarlo perché non riescono a liberarsi dalla trappola di loro stessi. A renderli ouminicch’ è solo il piegarsi a quelle regole assurde che, negandoli il raziocinio, faranno di loro dei mostri.

Ci sarà per loro un’altra possibilità? 
Ouminicch’ non sembra lasciarci molta speranza, ma non è questo il suo intento, non vuole trovare nessuna risposta, vuole solo riflettere sull’impossibilità della scelta (è, infatti, il primo atto della trilogia dell’impossibilità, seguito da ‘A Cirimonia sull’impossibilità della verità, e Manichini sull’impossibilità dell’essere), scoprendo, tra un applauso e l’altro, che quello che sembra una fantasia distopica e apocalittica del regista non lo è, poi, così tanto. Allora, dovremmo provare a svegliarci dal sonno; dovremmo imparare a riconoscere le claustrofobiche e costrittive porte della nostra vita, spalancarle, scardinarle, abbatterle tutte.  

testo e regia di Rosario Palazzolo con Salvatore Nocera e Rosario Palazzolo; musica di Francesco Di Fiore; assistente alla regia Angelo Grasso; produzione A.M.A. Factory, Torino.