TAORMINA. Continuano i grandi appuntamenti del Taobuk. Piazza IX Aprile si riempie ancora, questa volta nell’attesa dell’arrivo di Paolo Sorrentino. Il regista premio Oscar (La grande bellezza, 2014), in dialogo con Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano, ha raccontato di sé, del suo cinema e della sua ultima fatica “Parthenope“, la mitica Sirena della tradizione napoletana, da cui deriva il nome della città progenitrice di Napoli, né sirena né mito in realtà.
“Parthenope” uscirà nelle sale il 24 ottobre con una novità inedita: dal 19 settembre sarà possibile assistere già ad alcune proiezioni speciali nei cinema a mezzanotte. Spiega Sorrentino: “È una bellissima idea avuta dal distributore Piper Film. È dedicata agli insonni e ai ragazzi. Due categorie che mi stanno entrambe molto simpatiche”.
Il film riporta nuovamente Sorrentino nella sua Napoli, dopo “È stata la mano di Dio“. Ancora una volta con una narrazione autobiografica, un’autobiografia stavolta, però, immaginata. Così il regista lo presenta: “A volte ci si camuffa nei personaggi, altre volte si dichiara apertamente la loro appartenenza al proprio vissuto, come avvenuto ne È stata la mano di Dio, sebbene sempre tramite degli elementi trasfigurati. È così anche in Parthenope, ma l’autobiografia qui non appartiene solo a quello che ho vissuto ma anche a quello che volevo vivere. È stata la mano di Dio è l’autobiografia vissuta, Parthenope è l’autobiografia di ciò che avrei sognato di vivere”.
“Affronta – continua -, il ricordo della giovinezza, la bellezza di essere stati ragazzi, quella vertigine che spero il maggior numero di giovani abbia provato, una vertigine che ti fa sentire libero e pronto a qualsiasi cosa possa accadere anche se poi non accade nulla”.
Nel film premio Oscar La grande bellezza, Jep di Toni Servillo afferma: “È triste essere bravi, si rischia di diventare abili”. Cosa significa per Sorrentino? “Essere bravi – almeno per quanto riguarda il cinema che è quel poco che conosco del mondo – è avere un mondo interiore e trovare una via per esprimerlo, a volte con gioia, altre volte senza successo. Essere abili, invece, vuol dire sapere come agire, come esprimersi, avere padronanza di come si fanno le cose, ma non significa avere un mondo interiore, non è essere poetici, cosa cui io tengo molto”.
E precisa ancora: “Io non credo nel talento innato che sgorga sotto forma di ispirazione, idee del genere mi sembrano falsi miti. Quello che viene chiamato talento per me è un mondo interiore che, a volte, per una serie di circostanze, si ha la fortuna di avere, ma va coltivato e alimentato continuamente. I registi di talento, anche se non sembra, lavorano sempre. Io, almeno, non smetto mai di farlo, anche quando faccio finta di conversare con mia moglie o con i miei amici, in realtà, sto sempre altrove e mia moglie lo scopre costantemente. Ma stare altrove è il mio lavoro, è costruirsi una realtà parallela a quella quotidiana e per farlo si deve pensare, si deve leggere, si devono vedere i film. Anche se non lo faccio più come un tempo, prima leggevo un libro in tre giorni, ora ne leggo tre al mese. Ancora meno con i film, anche perchè mentre realizzo i miei preferisco non vederne altri. Se sono belli mi deprimo, se sono brutti, invece, mi esalto pensando di aver fatto un capolavoro”.
Ma quale è un bel film per il regista? Quali sono sono le sue influenze artistiche? “Mi influenza molto – spiega – il cinema amaricano degli anni ’90, quello di quando avevo 20 anni e andavo ogni giorno a vedere un film. Registi come Tarantino, i fratelli Cohen, Spike Lee, David Lynch, Scorsese anche se è più grande, registi che in quegli anni forse attraversavano il periodo più fortuito per il loro cinema”.
Ma il film preferito di sempre? Per Sorrentino, da molti considerato il Fellini contemporaneo, la risposta non può che essere 8½ di Fellini.
Nessun segno di neorealismo, però, nel suo cinema, che nasce proprio in quegli anni in cui ne era forte l’influenza: “Devo essere sincero, non ho visto tutto il cinema neorealista, qualcosa mi manca, ma so che non è il mio tipo di approccio. Quando ho iniziato, c’erano un sacco di colleghi che facevano un cinema neo neo realista, cercavamo tutti la nostra identità e quella non era la mia. Io facevo e faccio tutt’ora semplicemente quello che mi viene in mente”. E prosegue: “Anche se ci sono premi, competizioni, non penso siano l’aspetto rilevante, io mi sento di fare quello che mi piace fare così come lo fanno gli altri. Non sono mai stato in competizione con i miei colleghi, si inventano spesso di queste competitività, ma non fanno parte di me. Non sono competitivo, mi sento più a mio agio a perdere, mi motiva di più. Con La grande bellezza sapevo, infatti, che tutti quei premi non sarebbero stati stimolanti per i prossimi film. Tanti vincitori di Oscar attraversano un periodo di stagnazione, alcuni non riescono più a dedicarsi a nuovi lavori. Io sono stato salvato da Youth, perché lo avevo scritto e avevo iniziato già a lavorarci”.
Non è il successo ad avere valore, ma la possibilità di continuare a fare ciò che si ama: “Ciò che, per me, vale davvero è solo poter avere l’opportunità di realizzare un film successivo. L’uomo in più, per esempio, era formato da due film diversi. Feci questa scelta perchè avevo 29 anni, era la mia prima opportunità di girare un film, e pensai quando mi ricapita, meglio farne due, è come vincere al Superenalotto. La paura e il bisogno di poter continuare restano ancora oggi il mio pensiero costante”.
“Ogni film, però – conclude -, si fa insieme agli spettatori. Io fornisco gli elementi, loro, con le loro capacità emotive, completano il tutto”.
Pontiggia chiede, allora, a Sorrentino del suo rapporto con la bellezza, protagonista del film da Oscar (il cui titolo “La grande bellezza” apparteneva originariamente ad una sceneggiatura non realizzata di Roberto De Francesco).
“Ho un rapporto molto indulgente con la bellezza – risponde -, la trovo ovunque, sono poche le cose per cui provo rifiuto, a volte è pericoloso perché tende a piacermi ciò che non dovrebbe farlo, il deforme, il disdicevole. Ma ho un rapporto molto pacificato con il bello e con il brutto che per me è bello. Accanto al miracolo della scena apprezzo il miracolo dell’osceno. Non ho intenzione di lamentarmi se questo a volte ha creato problemi o mi ha portato censure. Facendo una metafora: io so benissimo che dico le parolacce e accetto altrettanto bene che a qualcuno dia fastidio che le utilizzi. Sono consapevole delle conseguenze di ciò che faccio, ci sono cose che possono darmi rabbia, ma se facessi una lamentela diverrei retorico e la retorica è proprio la cosa che meno amo al mondo”.
Per queste convinzioni Sorrentino non poteva non amare la scrittura di Louis-Ferdinand Céline: “È uno scrittore che mi sembra abbia capito tutto, ma è stato molto avversato. Ha raccontato bene sia i miserabili dal punto di vista economico, i poveri, sia in miserabili per altre ragioni, miserabili morali, che hanno in loro una grande forma di bellezza. In tutto c’è bellezza, anche negli aspetti negativi e nei vizi. Per questo motivo i suoi libri sono difficili da amare, ma una volta compresi, rivelano tutta la loro grandezza”.
Ma il mito assoluto per il regista – come mostrato già ne È stata la mano di Dio – è Maradona: “Non c’è niente che mi esalti più del Napoli. A Maradona ho dedicato film, una società di produzione, qualsiasi cosa. Il mio legame con lui ha significato tante cose difficili da spiegare, per me è una semi divinità. Smentisce ciò che dicevo prima, perché era tanto bravo quanto abile, il mio mito assoluto”.
Per concludere una riflessione sul valore dell’idea per cui “Hanno tutti ragione”, titolo del suo romanzo di esordio nel 2010. “È qualcosa cui credo – spiega, infine, il regista -, una mia tendenza al buon senso, a trovare una dignità in qualsiasi posizione sostenuta. Faccio fatica con gli estremismi, con le convinzioni che non retrocedono mai, penso sempre, invece, che si possa trovare una ragione nel mezzo, in questo sono davvero di centro”.