Questa rubrica è oggi dedicata all’opera del livornese Paolo Virzì, in programmazione nelle sale cinematografiche cittadine, “Il Capitale Umano”, che si può considerare il miglior film del poliedrico regista, amara commedia/noir, con ambientazione nel paese inventato di Ornate, collocabile in area lombarda (non precisamente briantea), quel Nord del Paese, descritto quasi come terra straniera, una sorta di misteriosa Siberia, soffocata da foreste intricate, sullo sfondo di periferie degradate, che pare abitata da gente dura, colpevole di aver abdicato, che cerca di inventarsi diversa, che finge e ordisce inganni per tutto il tempo della storia, dinanzi ad altri mentitori.
Liberamente tratto dal thriller “Human Capital” di Stephen Amidon, che è però ambientato nel Connecticut, scritto dal regista stesso, con l’apporto di Francesco Piccolo e Francesco Bruni, è un film denso, diretto sapientemente e vanta un cast d’eccezione, a cominciare da Fabrizio Gifuni, tale Giovanni Bernaschi, top rider della finanza – magnate della zona – che, insieme alla moglie destabilizzata – che sogna il teatro e cerca di rilevarne uno in chiusura – resa egregiamente da Valeria Bruni Tedeschi ed al giovane e viziato rampollo – che non regge il peso delle aspettative – è assiso nella villa eccessivamente sfarzosa che sovrasta il paese. Luigi lo Cascio è, ancora, l’amante occasionale della ricca consorte di Bernaschi, personaggio tristemente squallido. Vi è poi Fabrizio Bentivoglio, nella riuscita interpretazione di Dino Ossola, titolare di una agenzia immobiliare, che, per accedere al fondo fiduciario – gestito dallo squalo della finanza – e ad un mondo che non gli appartiene – ma al quale aspira – e con il quale entra in contatto grazie alla figlia, in modo stolto e credulone investe denaro preso a prestito da banche compiacenti, ipotecando la casa. La figlia, una Matilde Gioli strepitosa, è infatti fidanzata con il figlio del titolare dell’impero economico, ma non esita a lasciarlo per uno spiantato complicato, ma sicuramente estraneo a quel mondo corrotto. Vi è infine la seconda moglie, ben resa da Valeria Golino, una psicologa di buon senso, convinta della propria missione e tardivamente in attesa di due gemelli – che è all’insaputa del putiferio che il marito (per sfrenata ambizione) sta scatenando – che forse rappresenta, insieme alla figliastra, il lato ancora sano di quel marcio universo, una persona perbene, nonostante tutto.
Le due famiglie, entrate dunque a contatto a seguito dell’investimento di un ciclista – poi deceduto – schiacciato spavaldamente dal Suv del rampollo, vedranno alla vigilia di Natale i loro destini intrecciarsi sempre più, in un lento riaffiorare di indizi, con un finale che cambia tutto per lasciare tutto immutato.
La scenografia è di Mauro Radaelli, i costumi di Bettina Pontiggia, la fotografia di Jérome Alméras, le musiche originali di Carlo Virzì; l’opera cinematografica è stata realizzata con il contributo del Ministro dei Beni Culturali e delle Attività Culturali e del Turismo.
Virzì, in conclusione, rappresenta un apologo potente e graffiante, corrosivo, suddiviso in capitoli, per delineare il punto di vista dei diversi protagonisti, con un andirivieni nel tempo necessario per completare i dettagli e ricostruire minuziosamente la trama, pezzo per pezzo… viene fuori un’Italia contemporanea, vera e per questo desolante – e segnatamente una provincia – che ha scommesso sulla propria rovina e che, tranne qualche eccezione, neanche generalizzata, sembra non possa sentirsi innocente, perché quei sogni distruttivi le appartengono comunque.
L’amoralità, la ricerca del benessere costi quel che costi, è un tratto caratterizzante questi tempi di crisi etico-sociale, che, probabilmente, varca i confini nazionali in un’epoca in cui il capitale umano diviene il valore in denaro di una vita, dal punto di vista degli aridi calcoli assicurativi.