Prima di esaminare altri punti dell’intervento della professoressa Lojacono bisogna chiarire le ragioni che sono dietro il tanto discusso spostamento del tracciato ferroviario a Cannitello.
La “variante Cannitello” deriva dal fatto che l’attuale percorso ferroviario passa proprio dove dovrebbero sorgere i piloni del Ponte.
Loiero l’accettò a condizione che non fossero divulgate le vere ragioni del finanziamento, ma si parlasse genericamente della prima fase di un più ampio progetto di miglioramento ambientale per la costa calabrese.
Credevo fosse cosa nota ma evidentemente mi sbagliavo.
In prossimità dell’inizio lavori – e delle elezioni regionali – il patto del silenzio è stato (giustamente? proditoriamente? scioccamente?) violato.
A quel punto a Loiero – in grossa difficoltà con gli alleati dell’estrema sinistra – non è rimasto che ritirare la partecipazione della Calabria nella Stretto di Messina.
La solita politica politicante che, prima che pensare all’interesse dei cittadini, pensa a carpirne i voti. Da entrambi i lati.
Chiarito (spero) l’equivoco, passo al punto 4 dell’intervento della professoressa Lojacono, dove vengono esposte le ragioni per le quali potrebbe essere molto difficile trovare privati disposti a investire i capitali necessari alla costruzione.
Non è la sola a pensarla così e un lettore ha pensato di rafforzare le ragioni della professoressa richiamando l’intervento proposto nel settembre 2003 da parte di un giovane e brillante dottorando (a nome Marco Brambilla) durante un Convegno sulla Legge Obiettivo e la Valutazione dei Progetti.
Una voce, indubbiamente qualificata, che proviene dal gruppo di economisti legati a LaVoce, da sempre molto critici sul piano di sviluppo infrastrutturale proposto negli ultimi anni.
Il suo intervento si sviluppava secondo lo schema accademico classico: diagrammi colorati di costi e ricavi, formule matematiche e la conclusione ineccepibile che, in queste condizioni, l’investimento non rende.
Pura contabilità, con il consueto contorno della probabili collusioni – Brambilla le chiama catture – tra concedente (la Pubblica Amministrazione) e il concessionario (Stretto di Messina ed Eurolink).
Nella sostanza nulla di più di quanto dice – da più tempo e in maniera meno dottorale – il messinese prof. Guido Signorino.
Corollario: non si troverà nessun privato disposto a investire il suo denaro, a meno che (aggiunge Signorino) lo Stato non garantisca quantomeno il rimborso del capitale; il che appare come una forzatura della legge 1158 del 17 dicembre 1971 secondo la quale il collegamento viario e ferroviario tra la Sicilia e il Continente deve essere realizzato senza oneri per lo Stato. Mi sembra evidente che la stortura non è il possibile (o probabile) deficit di gestione del Ponte ma l’antimeridionalismo della Legge 1158.
Decine e decine di opere pubbliche, alcune molto più costose del Ponte, sono state finanziate, in tutto o in parte, con risorse statali.
E nessuno si è posto il problema della loro resa economica.
La costosissima SA-RC – in corso di ammodernamento e senza pedaggio, quindi a carico di tutti gli Italiani – ne è un esempio.
Non si deve fare nemmeno quella?
Per non parlare della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma, anch’esso gratuito, del Mose di Venezia, di pressoché tutte le nuove linee metropolitane cittadine e di centinaia di altre infrastrutture.
Da molti decenni, lo stesso trasporto sullo Stretto economicamente non rende ed è sempre stato assistito da contributi statali che pare ammontino a ben 150 milioni l’anno.
Il giovane economista de LaVoce però introduce un concetto importante e stranamente poco utilizzato: … difficilmente un’infrastruttura di trasporto … consente l’integrale finanziamento mediante i pedaggi e ancora la quota di finanziamento integrativo richiesto a fondo perduto è allora un efficace misuratore del valore sociale che la collettività attribuisce all’opera.
E’ un’impostazione corretta, che mostra i limiti della banale (e autolesionistica) semplificazione pedissequamente accettata da tanti NoPonte: se non rende non si deve fare.
Sul piano politico mi pare più saggio – soprattutto per un meridionale – sostenere: poco importa se il Ponte produce utili finanziari a chi lo gestisce, l’importante è che la collettività ne tragga un’effettiva utilità.
La conclusione di Brambilla non mira a convincere, ciascuno è libero di valutare il valore sociale dell’opera e, in conseguenza, se Stato, Regione ed enti locali – ciascuno dei quali potrà trarne vantaggio o danno in diversa misura – debbano o meno dedicarle risorse.
Sul piano strettamente economico però, va anche sottolineato che gli accademici e i prufissuri – come dice un mio amico avvocato – analizzano sempre le situazioni in modo astratto, senza considerare che le iniziative di grande impatto modificano pesantemente il contesto nel quale sono realizzate.
Prevedere le conseguenze è prerogativa di politici e imprenditori.
Con tutti i rischi del caso.
Il ponte sull’Oresund, tra Svezia e Danimarca – che, per inciso, ha un numero di abitanti simile a quello della Sicilia -, è stato un esempio di grande intuizione politica vanamente scoraggiata dagli economisti d’accademia. Nei primi tempi è stato utilizzato solo per il traffico turistico e per quello commerciale di lunga percorrenza.
Con grandi critiche.
Anno dopo anno, però, la presenza del ponte ha progressivamente inciso sempre più profondamente nel contesto territoriale nel quale l’infrastruttura operava.
I volumi di traffico sono fortemente cresciuti e, ai due estremi – sia in territorio svedese che in quello danese – è sorta un’unica grande area metropolitana con nuovi insediamenti produttivi a rilevante valore aggiunto, una nuova università, un grande parco tematico e moderni complessi residenziali ad alta vivibilità. Ottenuta grazie all’eliminazione del traffico di attraversamento.
Così il ponte sull’Oresund si è rivelato un potente volano in grado di attrarre nuovi capitali e rilevanti flussi turistici. Trasformando radicalmente, in meglio, l’economia e la qualità della vita delle popolazioni che vivono alle due estremità del collegamento stabile.
Nessun accademico l’aveva previsto.
Accadrà la stessa cosa per il Ponte sullo Stretto?
Nessuno può dirlo con certezza, i rischi sono tanti.
Una cosa appare però certa: né i Messinesi favorevoli al Ponte né la Stretto di Messina – almeno fino ad ora – sono stati capaci di spiegare in quale modo la città potrà trarre reali e durevoli benefici dall’attraversamento stabile.
Ha ragione la professoressa Lojacono: il problema è politico.
Nel senso che si dibatte se il Ponte cade o no, se darà utili (agli altri) o meno, ma nessuno impegna cervello e fantasia per individuare (e pretendere) vantaggi duraturi e sostenibili.
Guardiamo ora la cosa da un altro punto di vista – accennato dalla professoressa Lojacono al punto 6 del suo intervento -: vale la pena spendere tanti soldi per ridurre di un’ora scarsa un percorso di 10 o 20 ore?
Ebbene, per ridurre di 20′ il tempo di percorrenza della tratta ferroviaria Roma-Napoli sono stati spesi oltre 5 miliardi.
Gli economisti de LaVoce lo considerano un errore, ma non mi pare di avere mai letto studi di Brambilla o Signorino che ne contestavano il ROI (Return On Investment).
Insomma, a mio parere, la clausola che il Ponte debba essere fatto senza contributi statali è scandalosa in sé. Da siciliano, la ritengo una gravissima discriminazione contro la mia regione e, quindi, m’interessa ben poco se lo Stato garantisce il prestito o ripiana le perdite.
Come è avvenuto e continua ad avvenire in centinaia di altri casi.
A meno di non credere – come fa una buona parte del nostro beneamato Paese – che l’Italia si fermi a Salerno e il resto è un tugurio abitato dalla servitù.
Comunque, la legge esiste e, se non si troverà la montagna di capitali di rischio privati necessari, il Ponte non si farà. Con grande gioia di tutti i Leghisti e di una parte dei Messinesi.