REGGIO CALABRIA/MESSINA – Tempostretto prova a contribuire a far luce sui cinque referendum abrogativi in materia di Giustizia su cui si andrà a votare domenica prossima, 12 giugno.
In questo caso, l’abbiamo fatto sentendo l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, socialista di lungo corso e da tempo alfiere della causa dei Radicali, per le ragioni del “Sì”; e la senatrice Grazia D’Angelo del Movimento Cinquestelle, per il quale è vicecapogruppo a Palazzo Madama e membro della Commissione Giustizia del Senato, per le ragioni del “No”
Quesiti referendari sulla Giustizia: desiderio politico di risolvere vari annosi, specifici problemi, o è un attacco massivo alla magistratura, senatrice Grazia D’Angelo?
«Che vi sia un problema nella magistratura è sotto gli occhi di tutti: era evidente già prima, ma la cosa è esplosa col “caso Palamara”. Così come la politicizzazione delle cooptazioni nel Csm è un aspetto emerso anche dalle carte processuali. Era una faccenda assolutamente da risolvere, c’era stato peraltro anche un severo richiamo del Capo dello Stato nei confronti della politica a riformare l’accesso al Consiglio superiore della magistratura. Il motivo-cardine dell’intera tornata referendaria, per molti versi, sta proprio nel tentativo di far “cambiare pelle” al modo di garantire la composizione di Palazzo dei Marescialli, oggi largamente correntizio, con tante ‘picconate’ all’imparzialità e all’autorevolezza della magistratura».
Alla fine, non è riuscito il “colpo” d’evitare più quesiti accelerando sulla “riforma Cartabia”. Lei che è in Commissione Giustizia al Senato, ma pure nel Comitato “Legalità e Giustizia” del M5s, avrebbe condiviso una soluzione almeno in parte sostitutiva del ricorso alle urne?
«Diciamo intanto che l’idea di riformare la Giustizia era già ben matura sotto il governo Conte; e non è un caso che la “Cartabia” discenda direttamente dal ddl Bonafede. Certo su alcuni aspetti della riforma, così com’è il testo fin qui, noi non siamo d’accordo; ma non c’è dubbio che la via da preferire è proprio la strada parlamentare. Noi siamo contrarissimi all’operazione del centrodestra, cioè di portare i quesiti referendari sulla Giustizia all’attenzione dei cittadini. In questo contesto, anche se largamente migliorabile, la riforma può essere un’opportunità vera per affrontare problemi legati alla Giustizia comunque evidenti».
Questa considerazione è un controsenso o no rispetto alla storia di Cinquestelle, movimento che ha sempre esaltato al massimo il ruolo della democrazia partecipativa, referendum abrogativi inclusi?
«Per noi il referendum è, e rimane, lo strumento di Democrazia per eccellenza. Il punto è che, come ribadito nei giorni scorsi dall’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick, per ‘funzionare’ il quesito referendario dev’essere chiaro, immediato e intellegibile. Elementi che difettano largamente nei quesiti portati all’attenzione degli elettori, ecco. Su cinque quesiti, tre sono virtualmente inutili perché già “coperti” dal testo attuale della “Cartabia”; gli altri due, potenzialmente addirittura molto dannosi, e mi riferisco ai referendum per restringere l’applicabilità delle misure cautelari e per abolire la “Severino”».
Ma proprio gli elettori, già colpiti da disaffezione grave verso la politica, si fanno tante domande. Perché li si chiama alle urne per i quesiti referendari, quando parte della politica fomenta l’astensione e un’altra buona parte preferirebbe dribblare i quesiti restituendo le singole questioni al Parlamento?
«Mah, questo sentimento è abbastanza diffuso nella cittadinanza. Anche perché per tecnicismo e per scarso interesse generale è lecito dubitare che questa volta sia stato attivato lo strumento adatto alla risoluzione di problematiche che pure, in materia di Giustizia, sussistono. Larga parte degli elettori per varie ragioni non è in grado d’entrare nel merito di alcune dinamiche. E non si può certo andare “a colpi di machete” nel tentativo di migliorare il funzionamento della Giustizia: è uno svilimento dello strumento referendario che non ci trova per niente d’accordo. Peraltro, anche per queste ragioni si sta parlando pochissimo dei referendum alle porte, benché pure la politica abbia colpe rilevanti al riguardo. Ripeto, noi del “Parlamento pulito” abbiamo fatto un vessillo, non saremo certo noi ad affossare lo strumento referendario: il Movimento Cinquestelle crede fermamente nel valore della democrazia partecipata e dunque anche nei referendum abrogativi. Però il modo in cui questo strumento è utilizzato conta, e conta tanto: innanzitutto, occorre la certezza piena che ogni singolo elettore, davanti al singolo quesito referendario, esprima il suo suffragio nella piena consapevolezza sulla questione su cui sta per votare».
Perfetto. Ritornando dalla questione “di sistema” ai quesiti: ad esempio, i 30.017 casi d’ingiusta detenzione registratisi dal ’92 alla fine del 2021, coi loro 819 milioni 277mila euro che lo Stato ha dovuto versare per indennizzarne i protagonisti involontari, contano o no?
«Ma su questo non c’è discussione: in particolare, c’è un chiaro abuso della carcerazione preventiva. Solo che, secondo il Movimento Cinquestelle, va risolto in modo diverso e non attraverso un referendum abrogativo, ecco. Intanto, perché “legando le mani” ai magistrati s’impedirebbe di fatto di prevenire alcuni reati anche gravissimi: quelli che rientrano nel “Codice rosso” antiviolenza che abbiamo fortemente voluto, per esempio, e rispetto ai quali la reiterazione del reato è insita nella natura del reato stesso. Poi credo che, anche in assenza d’interventi normativi sulle misure cautelari, si possano comunque evitare molte criticità graduando oculatamente le diverse misure, visto che non c’è sicuramente solo la custodia cautelare a disposizione del magistrato; e, aggiungo io, operando maggiore attenzione e discernimento rispetto al singolo caso concreto».
E le ricadute di un’eventuale abolizione della “Severino”? Spesso vi si taccia, a torto ragione, di giustizialismo… Siete preoccupati o no per un possibile peggioramento del quadro legalitario negli Enti locali?
«Diciamo chiaro e forte una cosa: la “legge Severino” è un nostro vessillo di legalità. Siamo convintissimi della bontà e dell’efficacia di questo strumento normativo. Cosa accadrebbe in caso d’abrogazione? A mio modo di vedere, ci ritroviamo davanti a una questione d’etica politica: Cinquestelle, al momento delle candidature, chiede il casellario giudiziale a ogni singolo aspirante a una candidatura, escludendo dalle liste chi ha pendenze giudiziarie. Condivisibile o meno, noi abbiamo fatto questo tipo di scelta. Quindi restiamo assolutamente dell’idea che la “Severino” non si tocca: abbiamo già visto mille storture nel reclutamento del personale politico-amministrativo in questi anni. Siamo aperti a qualche piccola modifica, ma non più di questo. Oltretutto, al di là del dato politico-amministrativo, a fare le spese di un eventuale maggior grado di corruzione e inefficienza negli Enti locali, come sempre, sarebbero i cittadini, con l’erogazione di servizi che a maggior ragione risulterebbero inadeguati e un numero di Comuni sempre maggiore in dissesto finanziario proprio perché, spesso, sono state fatte scelte non guardando al bene comune, ma ad altri interessi…».
Una “catena di comando” che però probabilmente salta o è affievolita, affermano tanti sostenitori del “Sì” referendario, visto che la Corte costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia, non paga? Davvero è così?
«Le cose stanno diversamente. I magistrati rispondono già del loro operato, anche se non in maniera diretta: la responsabilità in capo a loro c’è, i risarcimenti sono già previsti e nessuno, ma proprio nessuno tra quanti come noi sostengono le ragioni del “No” desidera l’impunità sostanziale dei magistrati. Che comunque, ripeto, non c’è: anzi, la formulazione specifica del quesito tentava d’accreditare l’inesistenza di una responsabilità dei magistrati. Poi, chiaramente, occorre anche riflettere sulle possibili conseguenze di un’eventuale vittoria del “Sì” su questo specifico quesito. Nei fatti, con una forma estesa di responsabilità del singolo magistrato, coi mille timori da parte di ogni magistrato e una mole micidiale di cause avviate da chi, per un motivo o per l’altro, ritiene che le proprie prerogative siano state lese, attivando una sorta di “conflittualità diretta” col singolo giudice, si arriverebbe a una completa paralisi della Giustizia. E, ovviamente, non possiamo permettercelo».
In definitiva, il voto referendario del 12 giugno va snobbato secondo voi? Cosa si sente di dire a chi auspica o “tifa” per l’astensione?
«Quello referendario rimane uno strumento assolutamente prezioso: è chiaro, occorre dare all’elettore la possibilità d’esprimersi in modo netto e consapevole. Ma noi non cerchiamo la diserzione delle urne, non è un’ipotesi che ci piace: anche stavolta, come in tutte le altre occasioni, alle urne noi chiediamo d’andarci, e nel merito di votare “No”. Poterci esprimere col voto è una grandissima forma di libertà, oltre che una grandissima responsabilità: non siamo d’accordo con chi non si esprime in modo chiaro nel merito e “gioca” sul trucchetto di alimentare l’astensione, vista l’estrema difficoltà di raggiungere il quorum. Se contesto i gruppi organizzati o i partiti che fomentano l’astensione? Sono scelte politiche che ogni gruppo fa. Io mi sentirei a disagio, farei torto a me stessa per la mia e la nostra storia, abbiamo sempre invitato i cittadini a partecipare anche quando, come stavolta, nel merito non siamo d’accordo: fare diversamente significa svilire uno strumento nobile come il referendum».