Una storia fatta di ricordi, appiccicosi come remore; di una terra, cui la vita, come una remora, si trova attaccata. Questo racconta “Remore. Vicende d’isole, d’isolani, di case e di piccola giustizia”, del magistrato siciliano Peppe Costa, edito dal Centro Studi Eoliano di Lipari; un po’ romanzo, un po’ memoria, un po’ saggio.
Ma cosa sono queste, così ampiamente nominate, remore?
Pesci muniti di una ventosa sulla fronte e sul dorso, grazie alla quale si fanno trascinare dagli altri pesci; sono pesci singolari che hanno attirato l’attenzione di tantissimi pensatori dall’antichità ad oggi, Plinio, Aristotele, Borges, Cattabiani. Sono pesci che in tutto il meridione trovano nomi diversi, in base alla caratteristica che si preferisce evidenziare.
Per l’autore non sono parassiti, bensì dei portatori di allegria e irriverenza; sono i suoi protagonisti, che ritornano sempre tra le pagine, che costruiscono il racconto, ne costituiscono l’essenza. Quei pesci sono, in realtà, metafora dei suoi pensieri appiccicosi, dei suoi ricordi, e non solo: rappresentano rievocativamente, come spiega Giuseppe Giordano nella sua introduzione al libro, anche noi lettori, immersi nell’oceano creato dalle parole di Costa, trasportati da una storia che è la sua, la nostra, quella di tutti.
Peppe Costa ripercorre i ricordi della sua vita di uomo, marito, padre, magistrato, le vicende della sua terra, delle sue isole, di casa sua.
“Remore” è la sua storia personale, che emoziona, fa venire i brividi e commuove; storia personale che diviene occhio acuto e consapevole su un’altra storia, la grande Storia, della guerra mondiale, conosciuta attraverso l’esperienza dei suoi genitori e dei suoi nonni, della mafia e di Giovanni Falcone, del caso Tortora, di Aldo Moro.
Fa sorridere, nella lettura, la grandezza di un animo, quello dell’autore, che, accanto a tali eventi epocali, si sofferma, poi, sulle piccole cose, sui piccoli particolari come gli occhi azzurri di sua moglie più azzurri del mare dello Stretto, sul suo essere “niuro, curtu e malu cavatu”, sul suo fascino per incendi e temporali.
“Remore” è, poi, una celebrazione della nostra terra, di Messina, “vertice di quell’irregolare triangolo scaleno che è la Sicilia, la Madre”, del suo profumo di gelsomini, del suo Scirocco, della sua luce, del suo mare, della sua eleganza e della sua forza che ogni volta la rialza da cataclismi “della Natura e della Storia”, ed anche del suo abbandono; di Castanea, luogo dell’anima; di Lipari, luogo della maturità dove Costa compra casa con la moglie; è la celebrazione di un’Isola, dei suoi privilegi e delle sue sciagure, delle sue radici e delle sue tradizioni, dei suoi sogni e della sua nostalgia, dei suoi pescatori e delle loro vite.
La storia di questa terra non è solo cornice su cui si delinea quella personale dell’autore, ma diventa la sua storia personale stessa, in una simbiosi indistinguibile, dove l’una è l’altra e viceversa, in un intreccio inscindibile, dove aggrapparsi al proprio scoglio significa restare aggrappato a se stesso.
Il tutto grazie ad una scrittura che incanta, dall’inizio alla fine, nella sua sublime semplicità, impreziosita da citazioni e note a piè di pagina che trasportano nell’orizzonte di grandi scrittori della Sicilia, “numi tutelari” dell’autore, come scrive Giordano; Consolo, primo fra tutti, poi, da D’Arrigo a Sciascia, da Verga a Camilleri. Insieme ad immagini, foto, alcune delle quali prese dalle “cose” di Francesco Pagano Dritto, avo di Costa.
Una scrittura che fa star bene, che allontana i rumori del mondo fuori e permette di ascoltare i suoni di quella terra che racconta, di vederne i colori, percepirne gli odori, provarne le emozioni, con raffinata dolcezza. Una dolcezza che rende i “pensieri appiccicosi” del magistrato quelli di tutti noi lettori; un’eleganza del narrare che culla, colpisce con grazia, come le onde che si infrangono a riva. Una scrittura così sensibile e attenta, alla quale io, lettrice per indole sempre frenetica, bramosa di scoprire cosa venga dopo, quasi ansiosa, non ho potuto far altro che abbandonarmi, lasciandomi trasportare.
Giustizia, libertà e dignità sono, per Costa, in un mondo in cui si può rinunciare a tutto, valori irrinunciabili, valori che riempiono queste pagine con naturalezza, senza morali o insegnamenti espliciti, ma con il semplice esempio portato dalla sua vita.
L’autore scrive per guarire se stesso, precisa, ma con il suo scrivere guarisce un po’ anche tutti noi.
“Da quella bitta, lasciati gli ormeggi, riuscivo soltanto a navigare nel mare della fantasia, a bordo di un battello fatto di carta da libro e a propulsione d’inchiostro”, si legge tra le prime pagine, quando Peppe Costa descrive il suo rientro a Messina, e così resta per un po’ chi tra quelle pagine vi è entrato, e con nostalgico dispiacere si trova a doverne svoltare l’ultima.