La tragedia edipica sofoclea appartiene al mondo arcaico greco, è misteriosa perché dura da reggere e questo Edipo Re, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini nel 1967, di genere drammatico-mitico-psicoanalitico, non è certo la traduzione cinematografica di quella, distanziandosene parzialmente e costituendo, anzi, una ideale autobiografia pasoliniana sotto le spoglie della tragedia greca. Trattasi sicuramente di un’opera contraddittoria e, provando anche a tratteggiare un profilo psicologico della società, è innovativa e estrema. Silvana Mangano, una delle attrici – feticcio pasoliniane, è un’eccezionale Giocasta – che lo scorrer del tempo fa solo impallidire – Merope è resa da una valente Alida Valli e Edipo da Franco Citti; nel cast anche Carmelo Bene, Creonte, e Ninetto Davoli, immancabile nel doppio ruolo, prima di un messaggero e poi di Angelo.
Gli insoliti prologo ed epilogo pasoliniani, che si innestano nel fulcro centrale (che, dopo il matrimonio di Edipo con Giocasta, procede in senso classico) conferiscono all’opera una voluta circolarità. In Sofocle si veniva a conoscenza dei fatti anteriori alla venuta a Tebe di Edipo tramite i dialoghi dei personaggi, in Pasolini la storia procede in modo lineare. Si inizia dunque nel fascismo del Nord-Italia e le ultime scene sono ambientate nel nostro Paese negli anni 60 (collocazioni spazio/temporali originali) e nella parte centrale è rappresentata l’antica Grecia (che è in realtà un colorato Sud del Marocco, con ampie descrizioni desertiche) ove si identifica il mondo della verità, delle radici storiche, fuori dello spazio/tempo borghese, contro cui si polemizza. Non sono certo mancate la critiche a quest’opera cinematografica, vista da taluni come una brutta traduzione ideologica della tragedia di Sofocle. Nell’incipit siamo negli anni 20 (lo si intuisce dai costumi) ed una donna sta partorendo e l’atterrito padre del nascituro- in uniforme militare, con una forte valenza biografica, quale padre del regista – dice, con parole che appaiono “Sei qui per rubare il mio ruolo e la prima cosa che vuoi è rubarmi mia moglie”. La relazione di Pier Paolo Pasolini con il padre fu di rivalità, quella con la madre molto profonda, d’amore e ammirazione. Il padre che prende Edipo per i piedi (simbolo sessuale) e lo abbandona, si riconnette alla rappresentazione ben nota del mito. Si fanno i conti con il complesso di Edipo e le sollecitazioni offerte della contemporaneità, in questo caso Freud e la psicoanalisi, sono perni evidenti. Il personaggio è riflesso dell’inconscio collettivo, del bambino che vuol eliminare il padre per restare con la madre, spinto da una pulsione erotica che, offendendo la morale, è rifiutata con la crescita, rimanendo, però, latente… Vedere realizzato il sogno infantile, infatti, fa orrore e si preferisce accecarci, come Edipo.
Tema centrale è la colpevolezza dell’innocenza, come un rovesciamento del peccato originale. Edipo è emblema dell’uomo occidentale, che vuole ignorare la propria terribile condizione e prosegue fino alla finale catastrofe. L’ignoranza non ci libera dalla nostra sconsolata condizione, ed il sapere, di contro, non ci fa evitare la catastrofe. Quando Edipo entra a Tebe ed uccide la sfinge non risolve l’enigma ed essa, prima di morire, lo avvisa che ucciderla sarà inutile, l’enigma è infatti dentro di lui: la rappresentazione della sfinge funziona come analoga azione sul proprio inconscio, di soppressione (come rifiuto) degli istinti primordiali. Importante anche il tema dell’abbandono, concepito come ambivalente, essere abbandonato e abbandonarsi alle cose. Anche la duplicità fra consapevolezza e cecità è molto forte; Tiresia pronuncia le parole “Tremenda cosa è sapere, quando non giova a chi sa” e Giocasta si rivolge così ad Edipo: “Perché l’uomo deve stare in agonia se è in potere della preveggenza?” È un invito a farsi cieco. E lo sguardo materno di Giocasta, che lo consola tenendolo in grembo, è fortemente evocativo. Il mito è visto come un sogno, ed è ravvisabile una ribellione all’autorità precostituita, certo non con esito positivo. Nel mondo attuale si giunge alla fase della sublimazione, ove Edipo, cieco e purificato, raggiunge il livello dell’eroe e un attimo prima impersona un suonatore cieco che vaga in una moderna città con un flauto… l’innocenza è stata obbligata a sapere. Sulla scena cinematografica anche P.P. Pasolini, con inflessioni meridionali, come altre voci presenti, con lo stesso influsso. La funzione del coro è restituita grazie all’inserimento di alcune frasi che appaiono sullo schermo, introducendo il linguaggio scritto. Pochi i dialoghi, protagonista è, ancora una volta, un roboante silenzio, unitamente alla struggente musica mozartiana e a quella etnica nordafricana.
La splendida fotografia è di Giuseppe Ruzzolini, Luigi Scaccianoce è direttore delle scenografie e Dante Ferretti aiuto- architetto. Sul finale scompaiono la Grecia e l’apollinea consolazione e si giunge al mondo del tempo pasoliniano, ove Edipo e il giovane Angelo stazionano davanti ad una chiesa; a questo mondo borghese segue quello industriale, fatto di scialbi quartieri e fabbriche tristi. Edipo torna ai luoghi del prologo, in quel prato ove la madre lo allattava e si chiude così il cerchio, e l’esistenza finisce nello stesso posto in cui è cominciata… purificati si regredisce all’infanzia, periodo ricco di evoluzione interiore.
Tosi Siragusa