A Palazzo Zanca presentate le -Bocche di fuoco- di Capo Peloro

Sono stati presentati oggi, nella sala Giunta di Palazzo Zanca, dall’assessore alle politiche del mare, Pippo Isgrò, e dal direttore del Museo Storico di Forte Cavalli, prof. Vincenzo Caruso, i risultati della perizia identificativa delle bocche di fuoco di Capo Peloro, recuperate il 29 gennaio scorso sull’arenile di Faro. L’expertise è stata curata dalla dott.ssa Ruth Rhynas Brown, già funzionario delle Royal Armouries di Leeds in Inghilterra e dal dott. Renato Gianni Ridella, archeologo e collaboratore dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (C N R) di Genova, due tra i maggiori esperti europei di artiglierie storiche.

I reperti, attualmente, sono in fase di restauro a cura dell’Arsenale militare. Durante l’incontro con la stampa, al quale hanno partecipato il soprintendente ai beni culturali di Messina, arch. Rocco Scimone, e Fabio Rottino della Capitaneria di Porto, è stato illustrato il piano di riqualificazione e riassetto dell’area, dove sono state ritrovate le bocche di fuoco e ove sarà posto un simbolo commemorativo, in vista del 27 luglio 2010, ricorrenza del 150° anniversario della presenza di Garibaldi a Torre Faro e dell’ingresso a Messina dei Mille. CONSIDERAZIONI A CURA DEL MUSEO STORICO DI FORTE CAVALLI Garibaldi e i suoi uomini non trovarono alcun pezzo di artiglieria in postazioni lungo la riviera del Faro, abbandonato dalle truppe duosiciliane, ma ivi le bocche di fuoco vi furono trasportate su preciso ordine, a seguito di una codificata azione strategica. A parte i pochi pezzi di artiglieria facenti parte del parco di spedizione garibaldina, tutte le bocche da fuoco furono requisite ai borboni nelle varie piazze.

La documentazione consultata dimostra inoltre che le batterie borboniche distribuite sul litorale tra Messina ed il Faro risultavano già disarmate nel 1829 per Regio Decreto del 21 dicembre, così come testimoniato dalla relazione dei fratelli Mezzacapo datata 1859-60. Le bocche di fuoco recuperate a Capo Peloro, non furono sabotate prima di essere abbandonate sulla spiaggia. Dall’analisi di quelle recuperate a Torre Faro risulta che esse non furono sabotate prima del loro abbandono in mano al nemico. A quel tempo infatti, la tecnica di inertizzazione, utilizzata per non far cadere i pezzi in mano al nemico, era la cosiddetta tecnica “dell’inchiodatura” che consisteva nel conficcare a colpi di mazzuola un lungo chiodo d’acciaio nel focone (foro ove si metteva la miccia) dei pezzi, per renderli inabili ad essere adoperati; così spiegava il manuale: “Allorché in alcune circostanze si è obbligato di abbandonare la propria artiglieria all’inimico, o che siasi impadronito della sua, senza poterla portar via, s’inchioda affine d’inutilizzarla; un cannone inchiodato è fuori di servizio: bisogna o forarvi un nuovo focone, o fonderlo”.

Le bocche di fuoco di Capo Peloro, dopo le operazioni di pulitura effettuate dalle maestranze dell’Arsenale Militare di Messina, dirette dall’Ingegner Gian Francesco Cremonini, evidenziano i foconi perfettamente liberi. Inoltre, la palla conficcata a forza nella bocca da fuoco di tutti e tre i reperti, mostra una colata di piombo che ne sigilla perfettamente l’ingresso. Tale procedimento, decisamente lungo e laborioso, non sarebbe risultata efficace ad un esercito in ritirata che non avesse voluto lasciare in mano al nemico la propria artiglieria. Tale tecnica, utilizzata in altre regioni d’Italia e all’estero, è riferita ad un’epoca successiva e finalizzata all’occlusione definitiva della bocca di fuoco da riutilizzare come bitte di ormeggio e/o al loro abbellimento estetico. Un esempio simile a quello di Capo Peloro, si può osservare sul molo della Darsena di Bordeaux. La tecnica dell’inchiodatura era d’altronde ben nota agli eserciti di quel tempo, come testimonia l’elenco del materiale del parco di assedio delle truppe di Cialdini alla Cittadella, nel febbraio del 1861, nel quale risultano: n° 300 chiodi di acciaio per inchiodatura di artiglierie e n° 100 martelli per inchiodatura.

La bocca di fuoco più grande (Cannone A) reca una Croce sottoposta ad una Corona Reale e viene fatta risalire ad una commessa da parte del Re di Sicilia Vittorio Amedeo di Savoia del 1716. Il foro dei foconi delle tre bocche di fuoco, trovato completamente libero, conferma che non furono sabotati dalle truppe borboniche, ma inertizzati successivamente con delle palle conficcate a forza nelle bocche da fuoco e sigillate con una colata di piombo, secondo una tecnica utilizzata in altre parti d’Italia e in Europa quando le bocche di fuoco venivano impiegate come bitte da ormeggio. Non si può escludere che facessero parte del parco d’artiglieria borbonica, né che possano essere stati preda di guerra, e quindi utilizzati dalle truppe garibaldine nelle batterie allestite nella riviera del Faro. Resta di fatto che sono stati trovati in un luogo strategico ove per ultimo il Generale Garibaldi aveva ordinato di porre numerose bocche di fuoco in batteria per preparare il suo passaggio nel Continente.

Il Monumento che in quel sito verrà realizzato dal Comune non ricorderà se quelle bocche di fuoco furono inglesi, svedesi, sabaudi, borbonici, garibaldini o vecchie artiglierie navali abbandonate sulla spiaggia, ma un pezzo di storia cittadina riferita al Risorgimento che, tra luci ed ombre, ha comunque segnato la storia e il nostro presente.