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Standing ovation per Maurizio Pollini a Messina

L’attesissimo ritorno a Messina, dopo quasi cinquant’anni (nel 1972 l’ultima sua apparizione alla Sala Laudamo) di Maurizio Pollini, artista eccelso, assoluto protagonista del pianismo del ventesimo secolo, autore di incisioni ormai da considerare storiche, con la casa discografica Deutsche Grammophon, ha fatto sì che il Teatro Vittorio Emanuele fosse gremito come da tempo non si vedeva. Lunghe file all’ingresso, anche per via dei controlli sanitari dovuti all’emergenza pandemica, per ascoltare questa leggenda vivente, da troppo tempo assente dalle nostre sale concertistiche. Si è trattato in effetti di un evento imperdibile per chi ama la musica, per i tanti che, come me, possedendo numerosi vinili e cd del pianista, lo hanno amato ogni giorno, ma non hanno mai avuto la fortuna di assistere dal vivo ad una sua performance, perché ancora troppo piccoli nel 1972.

Pollini non si è certo risparmiato, proponendo anzi un programma di estrema difficoltà tecnica e interpretativa: due delle ultime Sonate di Ludwig Van Beethoven, fra cui la più lunga e complessa, la Sonata n. 29 in Si bemolle Maggiore106 “Hammerklavier”.

Le trentadue Sonate per pianoforte di Beethoven rappresentano un monumento che non ha eguali nella letteratura pianistica, e con esse si può affermare che nasce la moderna Sonata per pianoforte. Nelle ultime cinque in particolare – Op. 101, 106, 109, 110 e 111 – insieme agli ultimi Quartetti d’archi e alle ultime due Sonate per violoncello e pianoforte, Beethoven esplora nuovi mondi sonori e musicali, anticipando di quasi un secolo la musica moderna, segnando un nuovo e rivoluzionario modo di concepire la Sonata per pianoforte.

Pollini ha eseguito le prime due di queste sonate del cd. “ultimo Beethoven”: la Sonata n. 28 in La Maggiore, op. 101 e la Sonata n. 29 in Si bemolle Maggiore106 “Hammerklavier, la più lunga, difficile ed enigmatica delle Sonate beethoveniane.

La Sonata op. 101, con cui Pollini ha iniziato il suo concerto, si compone di quattro movimenti: Un po’ vivace e con il sentimento più intimo; Vivace alla Marcia; Lento e pieno di ardente ispirazione; Presto, ma non troppo, e con decisione.

Questa Sonata fu terminata da Beethoven alla fine del 1816, e dedicata ad una sua ex allieva, la baronessa Dorotea Ertmann, ottima pianista e tenuta in gran conto da Beethoven stesso, tanto da dedicargli una delle sonate più importanti e difficili.

Si tratta di un’opera davvero problematica, dove la ricerca del nuovo e la sperimentazione talora rischiano di comprimere la vena poetica, pur presente nella sonata. Dopo un primo movimento, col suo dolcissimo incipit, quasi mozartiano, che diviene l’elemento caratterizzante di tutto il brano, il secondo e l’ultimo movimento – separati da un breve adagio, una pausa meditativa e di raccoglimento – sono intrisi di contrappunto e di elementi di fuga, una sperimentazione in cui i modelli barocchi polifonici vengono rielaborati in chiave moderna, all’interno della forma sonata, ma che tradiscono però, come giustamente osservato da molti critici, un eccessivo studio, una fatica che nuoce alla fluidità e naturalezza della musica. Questa fatica, questa mancanza di scioltezza che già Mozart, affrontando la polifonia, aveva superato nella sonata K 533 e soprattutto nell’ultimo movimento della sinfonia Jupiter, sono da considerare però come una tappa essenziale per il raggiungimento degli straordinari risultati nel campo della polifonia e del contrappunto che Beethoven avrebbe perseguito da lì a poco, con la fuga della Sonata Op. 110, la “Grande Fuga” op. 133 per quartetto d’archi, e la straordinariamente complessa fuga della Sonata “Hammerklavier”, l’altra Sonata eseguita da Pollini.

Composta fra il 1817 e il 1819, anni tormentati, ma nello stesso tempo assai fecondi, visto che in quegli anni videro la luce, tra l’altro, la Sinfonia n. 9 Corale e la Grande Messa Solenne, questo immenso monumento pianistico presenta aspetti enigmatici e complessità ad oggi non del tutto risolti. Enigmatico anche il suo appellativo “Hammerklavier”, che deriva dalla sua edizione “Fur das Hammerklavier”, che vuol dire pianoforte a martelli, come tutti i pianoforti, e quindi sembra un titolo superfluo.

La Sonata anticipa con tutta evidenza i risultati che verranno perseguiti dalla scuola viennese, dalla musica d’avanguardia, i cui fautori non a caso ne fecero un emblema, un punto di riferimento, al contrario dei critici del suo tempo, che, in un contesto storico di pieno Romanticismo, considerarono la Sonata orribile, ad eccezione dell’Adagio.

Impossibile in questo spazio elencare tutte le complessità, gli aspetti assolutamente innovativi, gli elementi geniali della composizione, ci vorrebbe un trattato ad hoc, per cui mi limiterò all’essenziale.

Il primo movimento, “Allegro”, imponente, irrompe con dei violenti accordi sonori, un incipit di affermazione di grandezza, cui segue uno sviluppo strutturalmente complesso, con ampie connotazioni polifoniche, contrappuntistiche, temi variati, utilizzo delle più estreme note della tastiera, sia gravi che acute. Il secondo movimento, “Scherzo. Assai vivace”, è un brano più “tradizionale” ma contiene un Trio di inaudita modernità, con particolari effetti timbrici e sonori, resi splendidamente da Pollini.

Il terzo movimento, “Adagio sostenuto. Appassionato e con molto sentimento”, è stato definito da Carli Ballola “uno dei più sublimi monumenti che siano stati dedicati al dolore umano”. Un brano di proporzioni sterminate, un lago di profondo dolore, un tema che si rigenera di continuo e che sembra non dover finire mai.

Ed infine il quarto movimento, “Largo. Allegro risoluto”: preceduta da un misterioso e bellissimo Largo introduttivo, ecco una impressionante fuga a tre voci, trionfo dell’intelletto sul sentimento, antitesi quindi dei canoni romantici in voga all’epoca. Si tratta forse della fuga più complessa composta da Beethoven, di ardua difficoltà esecutiva ed interpretativa, che richiede una eccezionale e consumata tecnica pianistica per affrontare il complesso contrappunto, il cui tema a volte compare in modo retrogrado, cioè iniziando dall’ultima nota del tema stesso e terminando con la prima. A un certo punto appare un nuovo tema, anch’esso fugato, una “fuga nella fuga” invenzione geniale del sommo musicista, un episodio più calmo, quasi lirico, che prelude alla vorticosa tempesta finale.

Se non può affermarsi che il settantanovenne pianista abbia eseguito i passaggi più rapidi e difficili dei brani beethoveniani senza qualche sbavatura e imperfezione, come è naturale che sia, la sua interpretazione è stata comunque strepitosa: precisa e rigorosa nel contrappunto; perfetta nella scelta dei tempi, (spesso si assiste ad esecuzioni eccessivamente lente dell’Adagio dell’Hammerklavier, che ne compromettono l’unitarietà); Pollini ha dimostrato un eccezionale controllo della materia musicale beethoveniana, la sua esecuzione ha restituito le complesse strutture armoniche e contrappuntistiche dell’Hammerklavier in una forma unitaria, ed ha impressionato in particolare la sicurezza e padronanza dello strumento esibita nella fuga, davvero ardua, dell’Op. 106.

Una Bagatella di Beethoven come bis, e tutto il pubblico in piedi ad applaudire il grande maestro.