Cultura e spettacoli

“Stéfano”: può un sogno trasformare la realtà in un incubo?

MESSINA Seguire un sogno o scapparne? Combattere per ciò in cui si crede o fare a patti con la vita? È sempre la realtà, con le sue ingiustizie e le sue difficoltà, a trasformare un sogno in un incubo, o può essere il sogno stesso a rendere un incubo la realtà?

Conflitti familiari, disuguaglianze sociali, ideali che diventano illusioni sono al centro di “Stéfano”, vero classico del teatro argentino, scritto nel 1928 da Armando Discépolo, maestro del grottesco criollo.
Al Teatro dei 3 Mestieri, la regia di Stefano Angelucci Marino porta in scena il testo, tradotto e rappresentato in italiano per la prima volta; con lo stesso Angelucci Marino, Vito Signorile, Tina Tempesta, Rossella Gesini e Paolo Del Peschio.

Lo spettacolo – produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo in collaborazione con il Teatro del Sangro e il Teatro Abeliano di Bari – fa parte di quei lavori nati dall’esperienza teatrale fatta in Sud America (Argentina, Uruguay e Paraguay), a partire dal 2014, da Angelucci Marino e Rossella Gesini e, dopo la tournée argentina, arriva ora in Italia.

Protagonisti i cinque attori e otto maschere antropomorfe (a cura di Brat Teatro di Udine) modellate sui loro volti, lasciando libera solo la bocca. Queste non privano l’interpretazione di espressività o intensità, al contrario, facilitano la piena trasfigurazione degli attori nei personaggi (Paolo Del Peschio, in particolare, ne interpreterà quattro differenti). Una scelta cara al teatro di Angelucci Marino e al suo codice espressivo, ispirato dai “bamboloni” della Boca (il tipico barrio porteño dall’impronta italiana) e valorizzato, inoltre, dalla scenografia di Tibò Gilbert e dai costumi di Luisa Nicolucci.

Dialoghi diretti, incalzanti e arricchiti dal viaggiare tra italiano e spagnolo ci offrono una storia emozionante, in cui, tra le risate, il sentimento che prevale è quello di una forte amarezza. Apprendiamo poco a poco, tra un diverbio e l’altro dei personaggi, cosa sia accaduto: Stéfano è un musicista del Conservatorio di Napoli che decide di migrare in Argentina, animato dal suo forte desiderio di diventare un compositore famoso, di scrivere un’opera che lo porti al successo e alla ricchezza. Convince i genitori a seguirlo, promettendo loro un futuro migliore, insegue il sogno, arriva in Sud America, lì sposa Margherita e, insieme, hanno tre figli. Le cose, però, non vanno come sperato e quel sogno infranto diviene causa di numerosi malcontenti e scontri familiari.

A quell’interrogativo iniziale non si trova risposta. È la realtà ad aver ucciso il sogno di Stéfano? A trasformare il sogno in un incubo potrebbe essere stata la realtà di una famiglia che non crede in lui, spegnendo la sua creatività, di una società in cui si può soltanto rispondere alla velocità dei tempi produttivi imperanti oppure soccombere, una società piena di ipocrisie e contraddizioni, in cui la disuguaglianza regna, per cui per un migrante sarà tutto sempre un po’ più difficile, e nella quale il discepolo Pastore è pronto a rubare il posto del maestro Stéfano, aprendogli drammaticamente gli occhi sul dramma della sua vita.

Al tempo stesso, però, non potrebbe essere stato proprio quel sogno a rendere la sua realtà un incubo? E, non solo la sua di realtà, ma anche quella dei suoi cari? La ricerca di quell’ideale irrealizzato ha portato, infatti, due anziani genitori lontano da tutti i loro affetti, ha vessato le condizioni economiche e il benessere della famiglia, si è riversato sui problemi dei figli: Radamés, il cui nome richiama l’eroe dell’opera Aida, ma che, ben lontano da quella figura eroica, è tormentato da un disturbo mentale; Ñeca, su cui si riversa il peso dell’infelicità della famiglia, per la quale soffre in silenzio ed Esteban, il poeta, deciso ad essere ciò che il padre non è mai stato.

O forse il problema è ancora un altro, siamo noi come le ostriche, le quali, secondo il protagonista, hanno tutto ma non sono mai felici?

La storia non ci offre alcuna soluzione, la sua rappresentazione scenica della frustrazione vuole percorrere soltanto, tra comico e tragico, temi dal valore universale: ci pone pirandellianamente a confronto con l’immagine che abbiamo di noi stessi non sempre coincidente con ciò che davvero siamo; racconta la delusione e il fallimento, le diverse facce del sogno, le ipocrisie di cui si compone ogni scalata sociale; delinea con precisione la sua critica sociale penetrante.

Ma il principale interrogativo che ci lascia alla fine è uno, quello stesso che tormentava il protagonista: che me ne faccio di tutto questo dolore?

di Armando Discépolo

Traduzione e regia Stefano Angelucci Marino

Con Vito Signorile, Tina Tempesta, Rossella Gesini, Paolo Del Peschio e Stefano Angelucci Marino

Maschere BRAT Teatro

Scenografia Tibò Gilbert

Costumi Luisa Nicolucci

Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo

In collaborazione con Teatro del Sangro e Teatro Abeliano di Bari