"Le operazioni nel corpo, se ci sono, si vedono”. Aprile 2006, penitenziario di Terni. Il magistrato Sebastiano Ardita, allora Dirigente del DAP, incontra il boss Bernardo Provenzano, a pochi giorni dalla sentenza che lo condanna al 41 bis, il carcere duro. Il clima è quanto mai teso. “Ricordo che, in quell’occasione, Provenzano fece alcune richieste. Innanzitutto, voleva la sua Bibbia personale. Gli dissi che avrebbe potuto avere quella del carcere. Poi mi chiese delle medicine. Fu allora che tentai una mossa astuta e domandai perché avesse bisogno di medicine. Forse lei si è operato?, chiesi. E lui rispose dicendo che le operazioni nel corpo, se ci sono, si vedono”.
E’ ancora un capitolo tutto da scrivere quello su Attilio Manca, il giovane urologo barcellonese ritrovato morto nella sua abitazione di Viterbo, l’11 febbraio 2004, con due forellini sul polso sinistro ed una siringa accanto, a terra. Una storia che continua ad intrecciarsi con testimonianze, racconti, episodi che all’apparenza potrebbero sembrare insignificanti ma che, in un contesto più ampio, assumono i contorni di verità nascoste. Come il ricordo dell’incontro tra Sebastiano Ardita ed il boss Provenzano nel carcere di Terni, narrato dal magistrato in occasione della presentazione dell’ultimo libro del giornalista Luciano Mirone, “Attilio Manca, un suicidio di mafia” (edito dalla “Castelvecchi Editore”). L’episodio, singolare, ricollegato a quel contesto più ampio che è la strana morte di Attilio Manca, rivendicata per anni dalla famiglia come una “morte di mafia”, legata ad un’operazione che il bravo urologo barcellonese avrebbe eseguito a Marsiglia al boss Bernardo Provenzano, è uno di questi casi.
Una tesi, quella del “suicidio di mafia”, che il fratello Gianluca Manca e la madre Angelina hanno urlato, e continuano ad urlare, dinnanzi a tribunali, avvocati, giudici. Perché, in realtà, lo “strano caso Manca” fu subito bollato come morte per overdose dalla Procura di Viterbo che condusse le indagini, e poi archiviato come suicidio.
Eppure troppi elementi non combaciavano, a partire dal fatto che Attilio fosse mancino (come poteva iniettarsi droga sul polso sinistro?), alle intercettazioni di Francesco Pistoia che confermavano un viaggio di Provenzano a Marsiglia proprio nel 2003, allo strano ruolo del cugino della vittima, Ugo Manca, che aveva precedenti penali legati alla criminalità organizzata di Barcellona. E ancora le foto choc mostrate da Servizio Pubblico in cui si notavano chiaramente segni di violenza sul corpo di Attilio, nonostante nell’autopsia fatta dal medico legale Danila Ranalletta questo non emergesse, per arrivare infine alla conferma che, negli stessi giorni in cui Provenzano veniva operato a Marsiglia, il giovane urologo non si trovava nell’ospedale Belcolle di Viterbo dove svolgeva la sua professione.
Troppi strani elementi che la famiglia di Attilio ha sempre cercato di portare alla luce, nonostante i processi parlassero di altro. Nel 2009, su pressione dell’avvocato della famiglia Manca, Fabio Repici, la Procura di Viterbo riaprì il caso e nell’agosto 2014 giunse l’ennesima sentenza: Attilio Manca morì per essersi iniettato due dosi letali di un mix di eroina e tranquillanti. E l’unica colpevole, dopo l’archiviazione delle posizioni di 5 indagati (tra cui anche Ugo Manca), risultò Monica Mileti, una donna romana che avrebbe fornito ad Attilio la dose letale di eroina.
Il caso, poi, ebbe un’ulteriore svolta nell’ottobre 2014, a seguito di alcune dichiarazioni che l’allora pentito Giuseppe Setola, ex esponente del clan dei casalesi, fece ai Sostituti Procuratori di Palermo Nino di Matteo e Roberto Tartaglia, parlando di un effettivo collegamento tra la morte dell’urologo barcellonese e l’intervento chirurgico di Provenzano. Le sue dichiarazioni, secretate, passarono così nelle mani DDA di Roma coordinata dal Procuratore Giuseppe Pignatone. Due mesi dopo, lo stesso Setola ritrattò tutto quanto detto.
Il capitolo Manca è, quindi, una storia ancora tutta da scrivere, forse da riscrivere. E lo ha affermato, sabato pomeriggio durante la presentazione del libro di Mirone, anche il deputato Francesco D’Uva, presente in qualità di membro della Commissione Parlamentare Antimafia. “Lo scorso ottobre – ha spiegato il Portavoce del MoVimento 5 Stelle – siamo riusciti a calendarizzare una missione a Messina, una due giorni importante in cui abbiamo avuto modo di audire su diversi temi caldi di città e provincia. Abbiamo ascoltato la famiglia di Attilio, mi sono molto battuto per questo, e le loro parole hanno convinto tutta la Commissione. Abbiamo preso a cuore la questione, stabilendo di voler far definitivamente luce su tutto. Già una volta abbiamo audito la Procura di Viterbo ma non è bastato, poi abbiamo in programma di tornare una seconda volta. Ci sono tante domande che necessitano di approfondimenti. Ascolteremo anche Antonio Ingroia, l’altro legale della famiglia Manca”. Storie parallele che continuano ad intrecciarsi su una morte che, da esattamente 11 lunghi anni, continua a cercare la sua verità, e la sua giustizia. (Veronica Crocitti)