Cultura

Taobuk. Jon Fosse: “La scrittura come un viaggio verso ciò che non si conosce”

Taormina. La 14esima edizione del Taobuk, il Festival del libro ideato da Antonella Ferrara, è dedicata al tema dell’Identità, tra i suoi ospiti d’onore non poteva, quindi, mancare l’autore che ha indagato l’identità in tutte le sue sfaccettature, tra destini universali e mosaici multipli che si scontrano e ricompongono.

Si tratta di Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023, che ha guidato il pubblico presente in Piazza IX Aprile nel misterioso (anche per lui stesso) mondo della sua scrittura che – tanto nel suo teatro dalle ascendenze beckettiane quanto nella sua narrativa che ha portato alla luce capolavori come Melancholia e L’altro nome. Settologia – si fa racconto dell’indicibile, ricerca del senso dell’esistere.
In dialogo con lui Sabina Minardi, capo cultura per L’Espresso e ad introdurlo Caterina Andò, membro del Comitato scientifico Taobuk.

Il Nobel: una rovina

Si parte subito, ironicamente, dal dolore per l’essere diventato un personaggio pubblico: “Tra scrivere ed essere un personaggio pubblico c’è una grande differenza. Io sto lontano dagli eventi sociali, amo passare il tempo a casa con la mia famiglia, vado raramente a teatro, mi trovo meglio quando scrivo. Per scrivere ho bisogno di una grandissima concentrazione, se la perdo necessito di un sacco di tempo per rientrare dentro quell’universo a sé stante che ogni testo, per me, costituisce. La mia vita può sembrare noiosa, ma eventi come quello di stasera sono davvero un dolore per me. Per lungo tempo, lavorando alle produzioni teatrali, ho dovuto spostarmi per il mondo, poi mi sono detto basta, preferisco passare tantissimo tempo senza muovermi. Sono rimasto a casa 15 anni, per dedicarmi alla scrittura dei miei romanzi, che sono lavori complicati e lunghi. Poi mi hanno dato il Nobel, distruggendomi completamente quella pace di cui godere”.

Dire l’indicibile

L’amato e odiato Premio Nobel gli è stato consegnato per “la sua drammaturgia e la sua prosa innovative che danno voce all’indicibile”. Ma cosa intendeva l’Accademia Svedese con queste parole, secondo Jon Fosse? “Penso che su una pagina scritta – spiega – ci sia qualcosa da leggere ma, dietro, ci sia anche un’altra lingua capace di indicarci tutta una serie di argomentazioni, di spiegarci cosa stiamo attendendo, cosa possiamo sognare. Penso che la mia scrittura voglia soffermarsi su questo e, in tal senso, possa narrare l’inenarrabile”.

La lingua nynorsk

Scrittura che da sempre Fosse esprime in lingua nynorsk, utilizzata solo da circa il 10% della popolazione norvegese: “Scrivo in lingua nynorsk perché è la lingua che ho imparato a scuola, quella con la quale sono cresciuto, solo molto tempo dopo mi sono reso conto non fosse tanto conosciuta. Il fatto all’epoca mi impressionò parecchio, ma decisi di continuare ad usarla. Ho continuato a farlo per tutto il resto della mia vita”.

Dalla musica alla poesia

Se la lingua resta sempre la stessa, le forme espressive sperimentate da Fosse sono tante e diverse. Tra tutte, però, la poesia rimane la preferita: “È un po’ difficile spiegarlo, fin da giovanissimo amavo moltissimo la musica, ho suonato qualsiasi cosa, ascoltavo solo musica tutto il tempo. A un certo punto, poi, non ho ascoltato né suonato più niente, ho iniziato a scrivere e, così, ho cercato di ricreare nella mia letteratura quei luoghi e quelle atmosfere che avevo vissuto con la musica. Per me il ritmo è l’elemento cruciale, bisogna essere capaci di sentirlo e in una bella poesia c’è, è preciso, non ho bisogno di crearlo forzatamente, semplicemente c’è. Ovviamente più che mai nella poesia, ma lo sento anche nelle mie produzioni teatrali e nei miei romanzi”.

La scrittura è un regalo

40 anni di romanzi, ma la stessa passione di sempre. Racconta: “Scrivo romanzi da 40 anni e ciò che continua ancora ad affascinarmi è il processo dello scrivere, un viaggio verso ciò che non si conosce. È un lavoro di grande precisione, che mi ricorda ancora una volta la musica. Se una semplice virgola viene cambiata a pagina 3, andrà cambiata anche quella a pagina 30, 50, e così via, in modo che il lavoro torni ad essere perfetto. Tutto ciò nella mia scrittura, però, accade senza il mio apporto, nel mio scrivere non c’è nessuna interferenza da parte mia, se dovessi definire la mia scrittura direi che è ascolto e anche una necessità. Una cosa che mi obbliga a perseguire una direzione definita. Ma non dipende da me. Scrivere dei romanzi è un regalo che ho ricevuto e viene da lontano, non so da dove. Ecco perché mi piace anche prendermi lunghe pause tra un romanzo e l’altro, in cui traduco oppure mi dedico al perfezionamento dei miei lavori teatrali”.

Continua lo scrittore: “Proprio perché scrivere è affrontare un viaggio nell’inconscio e amo scrivere delle cose che non conosco, per farlo devo sentirmi al sicuro. Se quando cominci a scrivere ti senti fragile può essere un azzardo. In un periodo della mia vita mi sono sentito molto giù e ho smesso di scrivere, ho iniziato a bere, finché ho capito che, se non si può scrivere senza un buon bicchiere di vino, non si può neanche farlo con più di uno”.

Che cosa aspettiamo?

La sua penna che travalica lo spazio e il tempo, racconta sempre, con echi pirandelliani e beckettiani, un’attesa. Di cosa? “Siamo capitati in questo mondo – dichiara Fosse – non saremo qui per sempre, ci siamo caduti dentro e non sappiamo perché, magari resteremo qui parecchi anni e magari, poi, spariremo dalla circolazione. Che cosa aspettiamo? Aspettiamo di sparire”.

Ma la scrittura e la lettura danno un senso a questa tragica attesa. Conclude l’autore: “Un buon libro è più saggio del suo scrittore, e va al di là della vita stessa”.