“Un ballo in maschera-: Cobelli svela l’attualità di Verdi

Un testo perseguitato dalle censure di mezza Italia. Non è un caso che “Un ballo in maschera- non piacesse alle corti ottocentesche, preoccupate della carica eversiva implicita nell’omicidio in scena del regnante (originariamente re, poi prudentemente declassato a conte), dalla immoralità dell’amore fedifrago tra Riccardo e Amelia, ma anche dalla sulfurea presenza della indovina di ispirazione pagana. E non è un caso che l’allestimento di Giancarlo Cobelli (nella foto), prodotto dal Teatro di Messina in collaborazione con il “Teatro delle Muse- di Ancona e il teatro “Giuseppe Verdi- di Trieste, metta in rilievo proprio questi aspetti, che rendono l’opera tanto vicina al mondo e alla sensibilità contemporanei.

La regia dell’opera è solida e ben congegnata, asciutta e sgravata della retorica ottocentesca. Come sobrie e funzionali sono le scene, di Antonio Fiorentino, con le lugubri quinte che si trasformano in un attimo in ambienti interni, mentre sul ballo finale pende una mezzaluna con tanto di lampadine dal sapore kitsch. Su tutto si impone l’albero antropomorfo, invenzione simbolicamente potente e tecnicamente magistrale, che rappresenta la civiltà degli indigeni, soggetta al giogo degli invasori inglesi. Anche se, mentre gli indigeni sembrano effettivamente pellerossa, coerentemente con l’ambientazione americana dell’opera, gli inglesi sembrano piuttosto prussiani, con sfumature nazistiche. Una scelta del costumista Alessandro Ciammarughi, finalizzata probabilmente all’universalizzazione del concetto di oppressione, che trascende i singoli episodi della storia. Le luci, infine, progettate da Mario De Vico, sottolineano suggestivamente le atmosfere cupe e incantate delle scene, ma a volte indulgono all’effetto immediato e alla didascalicità.

Le interpretazioni dei cantanti sono di buon livello, Riccardo (Sung Kyu Park) è generosissimo ma non esplosivo, soccombe spesso all’incalzare dell’orchestra. Renato (Rodrigo Esteves) brilla per pulizia e precisione, ma non per espressività. L’unico tra i personaggi principali a svettare e a sovrastare in ogni occasione l’orchestra è Amelia (Alessandra Ceciarelli), che dà una prova di grande carisma. Di buon livello anche gli altri personaggi, a partire dal paggio Oscar, interpretato da Marija Kuhar Sosa, graziosa e sensuale nelle movenze, ma dalla voce potente e ricca di sfumature. Il coro lirico “Francesco Cilea-, diretto da Bruno Tirotta ha dei momenti felicissimi nel terzo atto, mentre in alcuni punti pecca in precisione; allo stesso modo l’orchestra del Vittorio Emanuele, diretta dal maestro Carlo Palleschi, è all’altezza del compito (quasi 3 ore di spettacolo), tranne rare sbavature. Le parti meno riuscite della partitura sono quelle complessive, nelle quali l’emozione della musica trascina le singole voci fino a perderle completamente. Al contrario i concertati, a due e a tre voci, mostrano un’armonia sorvegliata, quasi cesellata, di grande effetto.

Si replica domani alle 21,00 e domenica 8 alle 17,30.