DICERIA DELL’UNTORE dal romanzo di Gesualdo Bufalino. Adattamento teatrale e regia di Vincenzo Pirrotta. Scene e costumi di Giuseppina Maurizi. Musiche e paesaggi sonori di Luca Mauceri. Movimenti coreografici di Alessandra Luberti. Luci di Franco Buzzanca. Musici: Mario Gatto, Salvatore Lupo, Michele Marsella, Giovanni Parrinello. Con Luigi Lo Cascio, Vitalba Andrea,Giovanni Argante Giovanni Calcagno, Lucia Cammallieri, Nancy Lombardo, Luca Mauceri, Plinio Milazzo, Marcello Montalto, Vincenzo Pirrotta, Salvatore Ragusa, Alessandro Romano, Mario Gatto. Produzione: Teatro Stabile di Catania.-
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Sembra più un lager un mattatoio un manicomio, che un sanatorio per ammalati di tubercolosi la scena ideata da Giuseppina Maurizi: un’alta cavea inclinata, bianca come le pietre di Siracusa, quasi un mini-teatro greco, fornito di scala centrale e, semi-nascosti, al di sotto, un gruppo di quattro musici e sul fondo uno schermo cangiante di colore a seconda l’umore dei protagonisti, agghindati per lo più con abiti o tute color corda. Come dei detenuti in quella Rocca della Conca d’Oro, fra Palermo e Monreale, in quell’estate del ’46, teatro della Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, romanzo in parte autobiografico, “ostico e onirico” secondo Vincenzo Pirrotta che ha messo insieme un non certo facile adattamento teatrale, curandone pure la regia e vestendo lui stesso i panni del Gran Magro con lo spirito d’un domatore da circo in frac bianco con tuba e bastone neri, avendo accanto un formidabile attore qual è Luigi Lo Cascio nel ruolo dell’io narrante. Un luogo sinistro questo sanatorio, “un livido colombaio di pietra, una carena di bastimento, incagliata per l’eternità fra le radici dei rampicanti, col suo carico d’annegati”, secondo la descrizione che de luogo ne fa Bufalino paragonandolo all’inizio ad una “vecchia tartana, un’arca in secco su un’altura alla fine di un’inondazione, abbandonata dai vivi…”.- Il bacillo di Koch che è nell’aria lo si percepisce danzare testardamente e inesorabilmente da un polmone all’altro dei ricoverati, come un tarlo che dilania il loro corpo e la loro anima. Credo sia stato per Pirrotta un lavoro immane toccare la visionarietà di questo testo barocco, espressionista, metaforico, eppure così reale che, come sappiamo, prima d’essere pubblicato da Sellerio nel 1981, è stato riscritto più volte in una lingua alta, ricercata, poetica, bufaliniana tout court. Conosciamo lentamente il cappellano militare padre Vittorio (Giovanni Calcagno), lo studente fuoricorso di medicina Sebastiano (Giovanni Argante), lo stesso Gran Magro che “giudicava i malati per annate, come un intenditore di vini o un maestro in pensione”, la puttana della Kalsa (Vitalba Andrea), la ragazza della città (Nancy Lombardo) che canta pure versi dell’autore, i due Luigi (Marcello Montalto e Salvatore Ragusa) e infine Marta (Lucia Cammalieri) la ragazza diafana di cui s’innamora Lo Cascio. Ed è su questo amore in sanatorio che scorrono via parecchie immagini dello spettacolo. Un amore sublime e sublimato che profuma di zagare e tuberose e che dopo vari incontri, anche al di fuori del sanatorio, Marta morirà fra le sue braccia in una pozza di sangue, qui senza mai dare un colpo di tosse, né tanto meno farsi udire dal pubblico della “prima”, costringendo qualcuno a lanciare verso il palco un lieve “voce, voce”. Di tutti gli ammalati solo Lo Cascio ritrova la salute, vissuta quasi con un senso di colpa, come una diserzione dal “noviziato della morte”, un tradimento involontario che richiede la testimonianza della “diceria”. Pirrotta regista ha cercato di riproporre i suoi stilemi etnici ed etnomusicali, con risultati spiazzanti rispetto alle aure bufaliniane. Mi riferisco alla danza delle otto maschere bianche con i simulacri degli scacchi come copricapo, le tarantelle canterine, le clownerie e le pantomine con trampolieri e prestigiatori, i musici in processione con i pupi in mano. Bella invece quella cascata di radiografie avvolgenti circolarmente Lo Cascio, che in chiusura lo si vede abbracciato alla sua Marta in rosso, come due innamoratini di Peynet. Non sono mancati alla fine numerosi applausi al Teatro Verga dove si replica sino al 13 dicembre.- Gigi Giacobbe