Il 20 agosto alla Villa Romana di Patti si è tenuta, a cura dell’associazione Teatro dei due Mari (sezione “Palcoscenici aperti”), la piece teatrale “Il sogno di Ipazia” su testi rivisitati da Massimo Vincenzi; regia di Carlo Emilio Lerici. La grandiosa protagonista, già resa immortale dalla settima arte nel riuscito “Agorà” di Alejandro Amenabar del 2009 con Rachel Weisz, è stata omaggiata quale icona contemporanea del femminismo per essere stata ad Alessandria d’Egitto figura di spicco nell’ambito del pensiero filosofico (fu la principale esponente in Alessandria della scuola neoplatonica) dell’astronomia e in primis della matematica (fu per la matematica ciò che Saffo rappresentò in poesia e Aspasia in filosofia) ma anche inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio.
Figura di donna laica e anche per questo osteggiata, fino alla morte violenta del 415 d.C., per non aver voluto abiurare alle sue idee ritenute altamente rivoluzionarie, Ipazia fu una vergine martire e non volle con ostinazione divenire cristiana e purtroppo – e ciò va duramente stigmatizzato – la sua morte è storicamente addebitata a chi fu ascritto fra le figure santificate della cristianità. La recitazione emozionale di Francesca Bianco nell’unica parte in rappresentazione, con narrazione monologante che, pur essendo fedele alla documentazione storica, è stata liberamente reinventata; la voce fuori campo di Stefano Molinari, le musiche di Francesco Verdinelli e l’ottima regia di Lerici, ci hanno consentito di seguire Ipazia nel suo ultimo giorno di vita, nella sua quotidianità semplice e grande: dal risveglio mattutino, all’uscita per recarsi alla scuola – ove il suo allievo prediletto era Sinesio di Cirene – fino alla fatale aggressione e alla morte. Ad intervalli sono state rievocate le imprese disperate della protagonista, in primis quella di salvare i libri della biblioteca di Alessandria, e si sono udite le voci – autoritarie e non certo autorevoli – delle autorità politiche e religiose del suo tempo: l’imperatore Teodosio, che emanò quattro editti – dal 380 d.C., quando il Cristianesimo, con una genetica mutazione, divenne religione di stato – e Cirillo, il vescovo accanito fondamentalista che, a partire dal 412 d.C., divenuto patriarca, lanciò anatemi contro Ipazia, dai quali sono stati liberamente riadattati frammenti dei discorsi. Fu in quel periodo che vennero distrutti i templi greci e bruciati i libri pagani, attraverso i monaci armati ed incitati ad uccidere in nome di un dio guerriero. Spettacolo intenso, che ha scosso le coscienze con felice connubio fra storia, teatro e musica, portando in scena una riuscita lettera d’addio della grandissima Ipazia, la cui esistenza ci fa ben sperare, una donna immensa in un’epoca e in luoghi ove al femminile – molto più che ai nostri tempi – era misconosciuta pari dignità, in un universo che apparteneva al genere maschile: e infatti anche i sette leggii vuoti, probabilmente, hanno inteso rievocare la presenza degli allievi della scuola di Ipazia, tutti personaggi storici maschili, quali Davo, Oreste, Ammonio, Teone, Sinesio, Aspasio, Cirillo, etc.
Lo spettacolo ha riaffermato a gran voce più in generale la libertà di pensiero, da tutelare sempre per ragioni culturali e umane, per evitare la sopraffazione delle menti e nei confronti della diversità, di tutto ciò che rifiuta di essere omologato. Ipazia, grande razionalista, aveva sposato la verità e Cirillo il fanatico non poteva che detestarla. Il silenzio colpevole e assordante, che per secoli ha offuscato la bella – e non sono in senso figurato – figura di Ipazia, si è ormai interrotto e il suo brutale assassinio (scarnificata con affilate conchiglie, smembrata e bruciata) allora sepolto con il caso archiviato per mancanza di testimoni, è oggi storicamente provato. Bellissimo doveva essere il rapporto di Ipazia con il padre Teone, rettore dell’Università di Alessandria e famoso matematico che, come lei, aveva commentato i classici greci, da Euclide ad Archimede e Diofanto e che l’aveva incoraggiata a studiare al di là di ogni convenzione dei loro tempi, ad insegnare, a frequentare i mercati come le stelle del firmamento. In conclusione, lo spettacolo ha commosso e appassionato il numeroso pubblico presente e l’interprete, assai ispirata (pur se con qualche problema di dizione) ha attuato una recitazione con penetrante rigore introspettivo, alternando spesso i registri, dal lieve ed evocativo, al veemente, allo sferzante e drammatico.
Tosi Siragusa