Una pugnalata per Marat. La giovane rivoluzionaria di provincia Charlotte Corday vendica con un gesto estremo tutti gli ideali calpestati, i compagni caduti nell’ambigua morsa del Terrore, un popolo umiliato dalla miseria. Pochi anni prima una folla immensa aveva acclamato Marat, speranza di una riscossa compiuta solo in parte prima di divenire vuota retorica, verso prorompente privo di risvolti concreti. Il gioco della rivoluzione ha svelato le proprie inadeguatezze, la fame chiede nuovo sangue da versare. I pazzi dell’istituto di Charenton mettono in scena i traumi del passato sotto l’occhio vigilie del direttore Coulmier: un pubblico deve essere ammannito con una riscrittura falsata della Storia, il mondo, oramai, è stato finalmente liberato. In disparte, l’autore della rappresentazione, il marchese De Sade, coglie la propria vittoria: la parola è stata pronunciata, il caos è tornato sovrano.
Protagonista nel 1975 del “Marat Sade” andato in scena alla Sala Laudamo per la regia di Beppe Randazzo, Antonio Lo Presti decide di riproporre a Messina l’opera di Peter Weiss come conclusione di un lungo lavoro laboratoriale. In una claustrofobica saletta del Monte di Pietà, il pubblico è circondato dai ventisei ragazzi in scena animati dal furore del confronto con una delle operazioni più propriamente politiche del teatro novecentesco. Lo statico Marat (Lelio Naccari), immerso in una tinozza a causa di gravi problemi dermatologici, rivaleggia con un mondo sordo alle sue parole, già interamente proiettato verso un tragico epilogo. I pazzi, dunque, cialtroni, buffoni e naturali portatori di verità inesprimibili, sempre invitati verso un impossibile controllo dai richiami censori del direttore Coulmier (Dario Delfino): nuove processioni e nuove croci da trascinare sulla scena, mentre Charlotte Corday (Giulia Merlino), sonnambula presenza attraversata dai sogni di un’utopica giustizia, resta sdraiata ai margini del palcoscenico avvolta nel suo abito elegante, pronta a far rivivere in un solo attimo il paragone biblico con la risoluta Giuditta. In un luogo senza presente come un manicomio, solo il passato può indicare la via da seguire: la rivoluzione è possibile, altro sangue può vendicare le illusioni perdute.
Lo Presti attenua con meditata riflessione gli aspetti più violenti della versione originale per esaltare il verso e la parola in un progetto fermamente legato alla sua natura di laboratorio. Cambiano le generazioni e così le istanze che esse portano sulla scena: se la prima apparizione dell’opera di Peter Weiss nel 1966 anticipava di un paio di anni i moti
Domenico Colosi