Quell’Ominide che all’inizio attraversa come uno scimmione tutta la scena arrampicandosi poi su un rinsecchito albero d’ulivo, per poi scomparire e riapparire alla fine di questa Medea di Euripide messa in scena con grande senso etico da Krzysztof Zanussi e interpretata con istintiva irruenza da Elisabetta Pozzi, quell’Ominide (il mimo Vasily Lukyanenko), dicevo, accanto ad una megastruttura d’acciaio, non in titanio come il Guggenheim Museum di Bilbao, somigliante ad una lama concava, una vela, un fumaiolo, un iceberg, un vulcano fumante e chissà quant’altro nella mente dei suoi ideatori, i coniugi Fuksas, Massimiliano e Doriana, forse pure, con quei segni impressi sulla superficie luccicante, ombre d’antiche vestigia o anche lettere sghembe d’una password per accedere nel cuore di pietra di questa tremenda donna, ci fanno capire che fatti come quelli narrati nell’opera euripidea siano rimasti immutati nella mente dell’uomo, nonostante oggi si possa far ricorso a divorzi più o meno consenzienti o per colpa e spegnere ogni rapporto senza spargimenti di sangue. A nessuno, né all’uomo del Pleistocene, né a Medea, né a qualunque uomo-donna di oggi, piacerebbe sentir dire che l’amore tuo ti lascia per un altro/a. Certo, si potrà dire che Medea uccidendo la futura sposa del marito, il padre di lei e poi ancora i suoi due figlioletti, abbia compiuto un efferato pluriomicidio e sia stata eccessiva, una pazza, una squilibrata. Avrebbe potuto, come suggerito da Giasone suo marito, sopra le righe quello vestito da Maurizio Donadoni, col prendersi un bel mucchio di quattrini, lasciare i figli nelle sue mani, scomparire e rifarsi un’altra vita. Certo, avrebbe potuto agire così, ma non sarebbe stata più Medea e il suo mito non sarebbe giunto ai giorni nostri. Tutt’al più si sarebbe potuto realizzare oggi una telenovela o un reality show per sole donne in cui la vincitrice sarebbe stata colei che si sarebbe allontanata il più possibile dal carattere terribile e vendicativo di quella terribile donna figlia del Sole, inghiottitita alla fine all’interno dei suoi raggi. Ma tant’è. Esiste questa tragedia da 25 secoli e si continuerà a farla, stiatene certi, fino alla fine del tempo.
S’è voluto far iniziare questa gettonatissima tragedia con l’Ensemble Privitera, composto da sedici giovani studenti dell’Istituto musicale di Siracusa, che ha eseguito per soli fiati e ottoni l’Ouverture di Medea ad opera del musicista Daniele D’Angelo, senza che poi si potessero udire altre note di questa composizione. Solo dei suoni funesti che avvolgevano i protagonisti, tutti all’altezza, con qualche riserva per il Coro femminile, le cui voci amplificate non si capisce da dove provenissero e chi le pronunziasse ed erano troppo di piombo i sette soldatini di Corinto.
Elisabetta Pozzi, di-nero-e-verde-ossido-di-rame-vestita, nel ruolo della belva assassina è sempre e comunque brava, solo si fa prendere la mano, meglio la voce, (il fervore per me è più forte della ragione), nel rafforzare alcuni suoi violenti interventi che dovrebbero essere più contenuti e sussurrati: e sui suoi ritmi la segue Donadoni, spesso roboante, forse per un’eccessiva amplificazione, metalizzando le parole che gli escono di bocca. Autorevole è la nutrice di Antonietta Carbonetti, così pure il Creonte di Francesco Biscione, l’Egeo di Michele De Marchi e il messaggero di Giacinto Palmerini.
Pubblico delle grandi occasioni, occupante tutti i gradoni della grande cavea e applausi calorosi da stadio olimpico per questo spettacolo dell’INDA che ha inaugurato il XLV Ciclo di rappresentazioni classiche a Siracusa..