Già nel titolo con quel “sul” traslato dal latino “de” ovvero “intorno a”, Ninni Bruschetta vuol dirci che girerà intorno al “lavoro dell’attore” che equivale sulla scena al rito che compie il prete quando dice o recita la messa sull’altare d’una chiesa. Sono entrambi officianti d’una “messa in scena”. L’attore ha davanti il pubblico, il prete i fedeli. Tanto più saranno efficaci e coinvolgenti nelle loro funzioni, tanto meglio il pubblico e i fedeli usciranno dal teatro e dalla chiesa soddisfatti e contenti. Pur non nominando mai Ninni Bruschetta in questo suo saggio “Sul mestiere dell’attore” edito da Bompiani (pgg.132 € 9,50) i nomi di Stanislavskij e di Brecht le pagine odorano dei loro due metodi messi in atto nei rispettivi spettacoli. Diceva Brecht – “ Stanislavskij quando dirige è prima di tutto un attore. Io, quando dirigo, sono prima di tutto un drammaturgo”. Scrive Bruschetta: “Quando chiediamo ad un attore di essere “vero” non stiamo cercando una recitazione verosimile (…) Piuttosto gli chiediamo di trasferirsi pienamente e centralmente nella condizione del personaggio che sta rappresentando e quindi di essere “vero” nell’ambito di quella realtà illusoria, che è l’unica realtà da cui egli può attingere in quanto essa è la realtà della scena”. Per Stanislavskij l’attore deve immedesimarsi col personaggio. Per Brecht l’attore deve essere capace di distanziarsene e giudicarlo. Per Bruschetta, anche se parla di una “qualità” dell’attore e non d’un metodo di recitazione: “l’attore si avvicina a un personaggio, lo studia, cerca di conoscerlo, di collocarlo in un contesto e poi “prova” a interpretarlo, fin quando non lo conosce, lo trasforma, lo porta a sé e lo fa esistere nella sua pienezza, pur continuando a rimanere se stesso”. Parrebbe pure, a leggere l’introduzione di Gerardo Guerrieri al noto testo di Stanislavskij “Il lavoro dell’attore” edito da Laterza, che il sistema di quest’ultimo “non è in opposizione al metodo brechtiano, ma vi è contenuto: esso corrisponde, letteralmente, alla sua fase centrale”, lì dove Brecht duplica quasi il metodo di Stanislavskij nella sua integrità (verità del personaggio, movimento di immedesimazione dell’attore, raccolta dei dati etc..). Sembrerebbe che Brecht abbia aggiunto al “sistema” una presa di coscienza e un feedback ideologico, chiedendo all’attore di non rappresentargli subito il personaggio, ma anche un suo punto di vista critico. E dunque nei riguardi dell’identificazione col personaggio, ci pare ormai ovvio che la via di Stanislavskij non va nel senso di una identificazione del personaggio ma di una interazione personaggio-attore. Nel suo incedere Bruschetta sublima il suo saggio, lodato da Franco Battiato in una sua incisiva e brevissima prefazione, introducendo un personaggio per lui illuminante che risponde al nome di René Guenon, uno scrittore francese vissuto a cavallo fra ‘800 e ‘900 del secondo millennio del secolo scorso, studioso di varie dottrine religiose orientali e occidentali il quale, pur avendo scritto poco di teatro, sintetizza nei sui studi sulla “metafisica” come l’attore sia il vero demiurgo della rappresentazione teatrale che spetterebbe all’autore in quanto artefice del testo. Facendo propria la terminologia in uso in alcune scuole filosofiche dell’antica Grecia, René Guénon distingue due aspetti in una dottrina e, di conseguenza, due livelli di partecipazione alla «tradizione»: quello «exoterico», cioè esteriore, elementare, facilmente comprensibile e alla portata di tutti; quello «esoterico», cioè interiore, più profondo, d’ordine più elevato, e come tale rivolto e accessibile solo a coloro i quali sono qualificati in modo speciale per comprenderlo. Il cammino dell’attore, scrive Bruschetta, è quanto mai tortuoso e pieno d’insidie, accostabile ad una miriade di sogni tanti quanti sono i personaggi che potrà interpretare nell’arco della sua vita. Un “essere e non essere” continuo, una coazione a ripetere una “question”, una “domanda” che non ha risposte o che le contiene entrambe e che per questo necessita di frantumare il noto monologo dell’Amleto in cinque tranche, in cui vita e teatro convergono, si fanno tutt’uno e in cui la verità sorprendente è che il rito del teatro sarà sempre nuovo e diverso rispetto al tran-tran del vivere quotidiano. Non si sofferma molto sulla figura del “regista” Bruschetta, dice solo che: “è un interprete del testo che opera nel campo intellettuale stabilendo una mediazione tra il testo e l’attore (….) dovrebbe essere una specie di spettatore qualificato, in grado di suggerire all’attore la “direzione”del suo lavoro (…) se egli riesce a suggerire questa direzione (…) il suo ruolo diventa essenziale”. Un saggio utile per chi s’avvicina al Teatro, per chi lo fa e vuole riflettere sul proprio ruolo, per tutti coloro che frequentano e amano il Teatro.- Gigi Giacobbe