Le mestruazioni sono il simbolo della colpa biblica di essere donne. Essere donne diventa una colpa che va espiata, e per la quale bisogna essere punite. Una veste bianca con una macchia di sangue. Il rosso sul bianco, una violenza brutale compiuta durante la luna di miele. Una violenza che non si ferma mai, peggiora, anzi, diventa una abitudine alla quale la vittima si sottomette al punto di baciare la mano che quasi la uccide.
Silvia e Massimo si conoscono ballando il tango, due sconosciuti che si attraggono: lei così schiva e ingenua, lui così prepotentemente maschio e sicuro di sé. Convolano a nozze; Massimo (Mario Aroldi) rappresenta quell’esponente della borghesia patriarcale che vede nella propria moglie solo un utero da fecondare: “Ventre, scatola che custodirà mio figlio”, e Silvia (Gabriella Carrozza) invece rappresenta quel tipo di donna che il sistema patriarcale lo conosce già nella propria famiglia: “Non nominare mio padre”, dice alla madre (Marialaura Ardizzone), che non capisce, non vuol vedere i lividi: “Tu devi pensare a salvare il matrimonio”. Ma cosa c’è da salvare in un matrimonio che sacro non è, un matrimonio idealizzato da quella donna che da bambina ascoltando le fiabe, si immedesimava nella principessa e mai, mai nella sposa di Barbablù: “Dimenticare completamente di ascoltare il pericolo..”.
All’interno dell’armadio claustrofobico nel quale Silvia si rifugia, ha scritto con un gessetto parole d’angoscia: “nulla, bocca, barba, noi, avrei voluto, io sono lui, colpa”. I rapporti di potere sono edulcorati dalle canzoni e allo stesso tempo accentuati dalla danza, che diventa anch’essa violenza.
“Barbablù” non è una fiaba, ma una realtà: l’orco che ci ha spaventato nell’infanzia è reale, esiste. La violenza sulle donne non è una realtà davanti alla quale ci si possa dire “non è reale” come per le fiabe. Le donne sono spesso senza voce, succubi da generazioni di patriarcato. La fiaba di Perrault in chiave moderna è stata inizialmente rivalutata dal movimento femminista negli anni ’70, e più recentemente portata al cinema da una regista francese, Catherine Breillat. Proprio come lei, il regista Mario Mascitelli ha avuto sin da bambino una relazione particolare con questa fiaba: “Quando arrivava quella fiaba la saltavo immediatamente. Questa paura dell’attesa credo possa essere ciò che una donna provi nell’attendere il rientro del marito violento. E poi l’idea della chiave, della porta da non aprire che ho simboleggiato con un armadio, un luogo interiore dove rinchiudere e rinchiudersi con i ricordi e dove lui non possa entrare”.
“Ritengo da sempre il palcoscenico un mezzo efficace per dar voce a chi non ne ha”, spiega Mascitelli, “Vorremmo fosse un’accorata raccomandazione alle donne, a quelle donne fragili che non devono mai annientare la propria esistenza in favore di Orchi con una fede al dito”. Gli attori, bravissimi, hanno saputo creare una tensione difficile da disperdere alla fine dello spettacolo, quando le sensazioni ed il messaggio cominciano ad essere interiorizzati. Proprio per questo, nonostante qualche perplessità verso alcuni elementi iniziali, va ritenuto “Barbablù” uno spettacolo incisivo e penetrante nel suo intento: l’idillio della fiaba si spezza con la violenza che la legittimità del matrimonio non rende meno dissimile da uno stupro.
Lavinia Consolato