Lo scopo della ricerca non è trovare, ma cambiare. Questo uno degli insegnamenti dello spettacolo teatrale I miei occhi cambieranno, andato in scena nel fine settimana al Teatro Savio su proposta dell’Associazione culturale ARB.
Non è casuale la scelta del verbo “insegnare”; se, infatti, è vero che la buona letteratura e il buon teatro suggeriscono domande e non risposte, perché quando si vuol insegnare qualcosa al pubblico si rischia di diventare retorici e pedanti, è altrettanto vero che ogni principio ha le sue eccezioni, e allora un testo tanto sincero quanto convincente può sul serio insegnarci qualcosa.
I miei occhi cambieranno, regia di Giampiero Cicciò che ne ha anche curato la drammaturgia insieme a Giusi Venuti, è tratto da Certo che m’arrabbio di Celeste Brancato, attrice e scrittrice messinese scomparsa nel 2009 a quarant’anni, che ci ha lasciato, oltre appunto all’incompiuto Certo che m’arrabbio, Una farfalla, New York, Tokyo e Morlupo, anch’esso incompiuto, Una Donna Vissuta. Molto e Una Donna Vissuta. Rivista e Corretta, Rotta di collusione, Saponara Marattima-San Giovanni Rotondo andata e ritorno e La scommessa.
Prima dell’inizio, Giampiero Cicciò si è soffermato sul ricordo dell’autrice: “Il testo è l’adattamento del diario di un’attrice e scrittrice messinese” ha spiegato il regista, “un grande talento, oltre che una cara amica, che oggi non c’è più ma continua a essere con noi attraverso i suoi testi. A riprova del loro valore, bisogna ricordare che sia il professore Altavilla, primario di oncologia del Policlinico, che il professore Masetti, primario di senologia del Gemelli di Roma, dopo aver visto questo spettacolo, hanno dichiarato di aver appreso cosa avviene “dietro le quinte” in ospedale, e hanno modificato alcune dinamiche dei reparti che dirigono”.
Sul palco un’intensa Federica De Cola dà vita un lungo percorso che inizia con il male che già è presente nel suo corpo. Si parte dallo straniamento del primo ricovero – e lo sgarbo dell’addetta all’accettazione – e si prosegue con la paura “che fa cedere la vescica”, l’intervento, la debolezza che lo segue, i nuovi esami, la diagnosi per esclusione, il megaprofessore e la sua clinica hollywoodiana, il nemico che torna in una veste ancora più spaventosa.
Lo spettatore viene colpito allo stomaco da tutte le emozioni che il testo presenta con profondità e l’attrice interpreta con padronanza: il rifiuto – un pigiama-non pigiama e delle ciabatte-non ciabatte per far sì che il ricovero sia un non-ricovero – i cambi di umore, l’alternanza tra ottimismo e pessimismo, l’ironia che a volte aiuta ma tante altre non evita lo sconforto.
Ci sono i ricordi dell’infanzia, quando stare male era bello e non c’era fretta di guarire – la mamma che “cambia l’aria della stanza”, il lettone fresco, i fumetti comprati da papà. Ricordi che non si possono opporre al nemico che assedia, ma che compongono la vita che si è vissuta e, come direbbe García Márquez, come la si ricorda per raccontarla.
C’è soprattutto il senso di colpa, il domandarsi a più riprese dove ho sbagliato? La risposta sta nel dove ho taciuto. La protagonista ripensa alle cose non dette, a quelle per cui non si è lamentata, ai fatti non digeriti che ha tenuto dentro, ostentando un falso sorriso per difendersi dalla violenza – e dalla logica – delle parole altrui: “Cominciamo a non parlare più di colpe… La paura di qualcosa mi è scivolata sul cuore, schifosa, e ora dopo ora, giorno dopo giorno, ha costruito dentro di me qualcosa di duro”.
Abbiamo parlato in apertura di ricerca e cambiamento, e il risultato lo vediamo dopo il nuovo viaggio in ospedale – da brividi la scena accompagnata da La valigia dell’attore di Francesco De Gregori – quando la protagonista non sta zitta davanti al gretto uomo alla guardiola, rappresentazione di un Paese miserabile, che, spacciandosi per moderno e progressista, continua a giudicare basandosi sull’aspetto e sul prezzo dei vestiti.
Il benessere non ti migliora, venire temprati dal fuoco sì dice la donna prima di un’altra tac, prima delle ultime riflessioni, prima di andare incontro al suo destino, prima che il sipario si chiuda e Federica De Cola e Giampiero Cicciò escano a prendere i meritati applausi e, soprattutto, a mandare un bacio verso il cielo. Prima, infine, che il pubblico si asciughi le lacrime e, smesso di applaudire, lasci la sala con la consapevolezza di aver assistito a un’opera che non è nata solo per intrattenere, ma per trasmette qualcosa, riuscendoci grazie alla sincerità e al talento.