Dinanzi ad un pubblico assai numeroso, che evidentemente non si è voluto lasciar sfuggire l’occasione di assistere all’unica opera inserita nel calendario della stagione concertistica del Teatro Vittorio Emanuele, è stata rappresentata la prima de “La Bohème”, una delle più celebri opere di Giacomo Puccini.
Andata in scena la prima volta a Torino nel 1896, è frutto del connubio vincente fra Puccini e i drammaturghi Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, autori del libretto, tratto da un romanzo dello scrittore francese Murger, “Scenes de la vie de bohème”. Tal connubio, nell’ambito del quale Giacosa era una sorta di sceneggiatore mentre a Illica era affidato il compito di mettere in versi la storia, diede vita anche a “Tosca” e “Madame Butterfly”, e si sciolse solo con la morte di Giacosa, nel 1906. Ne “La Bohème” si sviluppa meravigliosamente la poetica musicale di Puccini, una mirabile sintesi fra melodia popolare – quante volte, da piccolo, ho sentito mia nonna cantare “Mi chiamano Mimì”! – e la musica colta, di influssi derivanti dai compositori contemporanei tedeschi e francesi. Spesso criticato dai musicologi dell’epoca, per certa melodia “facile” – un certo Carlo Bersezio, dopo la prima di Bohème, ebbe a scrivere: “Quest'opera non lascerà tracce nella storia del nostro teatro lirico” – è stato completamente rivalutato dalla critica moderna, ed ha comunque sempre avuto i favori del pubblico. La connotazione fondamentale della musica pucciniana, tanto da renderla un unicum nel panorama musicale del melodramma, consiste nell’abbracciare le più varie influenze internazionali musicali del suo tempo, a cavallo fra l’ottocento e il novecento. E così nelle sue opere, e ne “La Bohème” in particolare, accanto ad influssi derivanti dall’opera lirica italiana contemporanea – il verismo -, riscontriamo evidenti influssi wagneriani, che si manifestano nell’uso del leitmotiv e nel cromatismo, e caratteri tipici della musica francese, il lirismo di Massenet, il colore di Bizet, e, soprattutto, i meravigliosi e del tutto moderni impasti timbrici di Claude Debussy. Anche l’ambientazione delle opere riflette la sua dimensione internazionale, dal momento che le storie si svolgono ora in Cina, ora in Giappone, perfino in America, quasi a dispetto del morboso attaccamento del musicista per la sua Torre del Lago, da cui non riusciva mai a separarsi per troppo tempo.
Anche la vicenda di questo capolavoro non è ambientata in Italia, ma nella Parigi del 1830, nel mitico e affascinante quartiere latino, e tale circostanza ha concorso ulteriormente alla popolarità dell’opera. La storia è arcinota. Alcuni giovani artisti scapestrati vivono nello storico quartiere parigino, e cercano di sbarcare il lunario, senza mai perdere l’allegria della loro giovinezza. Rodolfo, poeta (tenore) e il suo amico Marcello, pittore (baritono), vivono in una gelida soffitta del quartiere latino; gli amici Colline (basso) e Schaunard, musicista (baritono), vengono a trovarli e danno vita ad un festino improvvisato con cibo e vino. Dopo essere riusciti a liberarsi del padrone di casa che reclama l’affitto, escono per continuare la baldoria al caffè Momus, (un locale storico frequentato da artisti, che si trovava al posto dell’attuale Hotel 'Relais du Louvre) tranne Rodolfo che rimane ancora in casa per finire un articolo. Una ragazza sua vicina, l’indimenticabile Mimì (soprano), bussa alla porta per avere un fiammifero. Complice lo spegnersi del lume e la caduta accidentale della chiave di casa di Mimì, le mani dei due giovani, intenti a cercare al buio la chiave, si incontrano ed è subito attrazione reciproca. I due raccontano la propria storia in un duetto – “Che gelida manina…. Mi chiamano Mimì” – fra i più celebri e melodiosi della storia dell’opera, meravigliosa fusione del lirismo melodico con la raffinatezza timbrica del fraseggio orchestrale. Arrivano però gli amici che chiamano da fuori Rodolfo, il quale scende per recarsi con loro al caffè, accompagnato dalla sua nuova amica. Finisce così il primo quadro. Il secondo quadro è ambientato al caffè Momus, dove la combriccola incontra Musetta (soprano), vecchia fiamma di Marcello, che, dopo aver inscenato uno spettacolino (cantando il celebre e delizioso valzer “Quando me n’vo” finisce con il rimettersi con lui, lasciando da solo a pagare il conto il suo anziano accompagnatore (Alcindoro). Il terzo quadro inizia con Mimì che si lamenta con Marcello della gelosia di Rodolfo, ma il suo discorso è accompagnato da insistenti colpi di tosse. Marcello ne parla con Rodolfo, alla Barrière d’Enfer (dove Musetta insegna il canto agli ospiti) e quest’ultimo, pur se intenzionato, come Mimì, a troncare la relazione, confida all’amico che la separazione è necessaria in realtà in quanto la ragazza è malata di tisi e non può più stare con lui nella gelida soffitta. Mimì, che nel frattempo, nascosta, ha ascoltato tutto, si rivela e i due si abbracciano, mentre, al contrario, Marcello e Musetta finiscono con litigare. L’ultimo quadro si apre nuovamente nella soffitta di Rodolfo e Marcello: i due ricevono la visita di Colline e Schaunard, ma improvvisamente irrompe Musetta, in preda all’agitazione, perché Mimì è fuori svenuta, in procinto di morire. Rodolfo si prende cura di Mimì, e i due rievocano, il loro primo incontro, lasciati soli da Musetta e Colline, andati nel frattempo a impegnare gioielli e vestiti per comprare le necessarie medicine e un manicotto. Al loro ritorno Rodolfo spera che la giovane possa ancora guarire, ma gli amici si accorgono che Mimì è morta. Presto se ne avvede anche Rodolfo che piangendo si getta sul suo corpo. Si conclude così tragicamente il melodramma che alterna continuamente momenti tristi ad altri spensierati.
La rappresentazione è stata abbastanza convincente, con alcune ombre ma anche con splendide altezze. È innanzitutto da sottolineare la buona prova dell’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele, diretta ancora una volta egregiamente dal
La regia di Giorgio Bongiovanni, tradizionale, non ha convinto del tutto con riferimento al secondo quadro, in cui la scena davanti al caffè Momus è sembrata troppo affollata e confusa, con difficoltà ad individuare i vari personaggi, e di ciò ne ha fatto le spese il pur valente coro di voci bianche “Biancosuono” di Messina, diretto da Agnese Carrubba, quasi smarrito nella caotica scena, e anche sovrastato dal suono troppo alto dell’orchestra. L’opera va comunque assolutamente vista anche e soprattutto per ammirare le splendide scene, realizzate sui bozzetti originali di Nicola Benois per la Scala, dipinte a mano con una tecnica artigianale, che riproducono in maniera incantevole il magico quartiere latino di Parigi: Il primo quadro (non a caso Puccini ha suddiviso l’opera in “quadri” e non in “atti”) rappresenta efficacemente la gelida soffitta in cui vivono Rodolfo e Marcello, il lucernaio con un vetro rotto, un tavolo, una dispensa, un letto e qualche altro elemento che evidenzia la miseria ma anche la spensieratezza iniziale dei due amici; il secondo quadro fa rivivere la effervescente Parigi bohèmien dell’epoca, con il caffè Momus in primo piano e splendidi palazzi e chiese appena più in fondo; nel terzo quadro la scena muta radicalmente, una serata fredda e nevosa, dinanzi alla porta della dogana, la Barrière d’Enfer; nel quarto, infine, ritorna la gelida soffitta, ospite questa volta del tragico epilogo, la morte di Mimì, che non smette mai di commuovere, quasi a simbolizzare la fine della spensierata giovinezza della compagnia di artisti, sepolta per sempre insieme alla povera Mimì.
Giovanni Franciò