Da Ravel a Morricone, con echi di Tchaikovsky ad irrobustire i passaggi dalle epopee armene ai ritmi cubani: la Suite sacra di Valter Sivilotti si dibatte tra eleganti persuasioni, intuizioni cangianti e visioni eroiche. Resterà tra i momenti più alti della serata. Immediatamente dopo, un tuffo inaspettato nella palude dei luoghi comuni: il monologo di Simone Cristicchi su un Gesù moderno, migrante apolide scampato ad un rovinoso naufragio nel Canale di Sicilia. Il contatto del povero cristo, dunque, con l’illusorio splendore della civiltà occidentale, aliena a se stessa tra spersonalizzazioni dovute alle novità tecnologiche e vizi propri alla condizione umana: parole di perdono e vendetta, prefigurando un inferno non dissimile all’esistenza terrena. Luddismo da manuale, completato da qualche calembour rassicurante sull’avvicendarsi delle stagioni della vita. O tempora, o mores. “La buona novella” preme a dispetto della lunga introduzione: il consueto panegirico sul poeta De André prima di tornare alla musica e trovare, così, la svolta definitiva dello spettacolo.
Miniaturista delle pagine perdute della storia contemporanea, Simone Cristicchi è tra i migliori eredi della scuola cantautoriale romana. Sufficientemente leggeri, di quella leggerezza calviniana estranea a tanti artisti politicizzati della nostra musica, i suoi appunti in versi raggiungono quella profondità estranea alle verità tascabili da comodino: monologhista appena dignitoso, musicista eccellente. Il rispetto per De André, dopotutto, si misura nella capacità di poterlo reinterpretare: l’Orchestra del Vittorio Emanuele ad impreziosire gli arrangiamenti dello stesso Sivilotti, il rischio filologico accantonato per un lavoro che non vuol rivelarsi solo divulgativo, ma espressivamente consono alla modernità.
Nel 1969 De André trasse dai Vangeli apocrifi le nove storie della buona novella, operazione suggestiva per un’aneddotica inconsueta, libera dalle maglie dell’insegnamento canonico: tra spirito e materia, una vicenda umana dove la purezza delle parole è costretta a scontrarsi con il dato reale e carnale, con la rivelazione solo suggerita tra le righe. Dall’infanzia e i sogni di Maria al dialogo di Cristo in croce con i due ladroni con un testamento finale costruito sulle contraddizioni dell’esistenza: gli ultimi, i miserabili, da una parte, costretti a fronteggiare la ricca morale borghese. Inappuntabili le scelte stilistiche di Cristicchi, che esalta i brani più ritmati (come “Maria nella bottega di un falegname”) ed argomenta i passaggi più controversi con intelligenza e humour: ad arricchire l’esecuzione il decisivo accompagnamento del coro scolastico Maurolico-Verona Trento con il coro giovanile I Mirabili diretto da Dario Pino, in un fertile percorso che ha esaltato brani come lo stesso “Testamento di Tito” prima della liturgia del “Laudate hominem”.
Riscontrati i presupposti idonei a soddisfare ogni aspettativa, il pubblico diviene spesso insaziabile. Cristicchi concede i propri brani nel lungo ed applaudito bis: prima “Magazzino 18” sul dramma dei profughi italiani di Fiume, Istria e Dalmazia, poi le festivaliere “La prima volta che sono morto” e “Ti regalerò una rosa”. Conclusione proprio con una replica di “Laudate hominem”, necessario approdo finale della messa laica rifinita con garbo da un atipico messaggero di speranza.
Domenico Colosi