L’“Histoire du soldat”, racconto per voce recitante, mimi e strumenti, è una singolarissima commistione di prosa, musica e danza, ideata da Igor Stravinskij – che ha composto le musiche – e lo scrittore Charles–Ferdinand Ramuz, autore del testo. Lo spettacolo è stato scritto per un complesso di sette strumenti: violino, contrabbasso, clarinetto, fagotto, cornetta, trombone e percussioni, complesso che è destinato a suonare ad un lato del palco, mentre dall’altro lato, seduto ad una scrivania, il narratore.
Al centro della scena gli attori, in particolare il soldato (un attore), il diavolo (che assume le vesti di attore e di danzatore – mimo), la principessa (una danzatrice). L’idea originaria era quella di far eseguire lo spettacolo da un complesso di attori e musicisti itinerante, in tutta l’Europa, toccando anche i centri più piccoli. Purtroppo l’infelice momento che vide la luce di questo capolavoro, composto nel 1918 mentre il musicista russo si trovava in esilio in Svizzera, non consentì l’attuazione di tale proposito, sia per le macerie della prima guerra mondiale, sia soprattutto per la terribile epidemia, la spagnola, che imperversava in tutta Europa. Così l’opera, nata con intenti popolari, è nel tempo divenuta una composizione aristocratica, che esprime con assoluta oggettività e senza sentimentalismi di alcun genere tutto il pessimismo e l’inquietudine dell’esistenzialismo del primo novecento. Tratta da racconti popolari russi, in particolare di Afanas’ev, ma ispirata chiaramente alla leggenda del Faust, l’“Histoire du soldat” narra le vicende di un soldato che scambia il suo violino con il diavolo in cambio di un libro magico capace di recargli ogni ricchezza e fortuna. Il soldato successivamente inseguirà il diavolo per tre anni – ma lui crede siano solo tre giorni – per riavere il violino, giungerà nel suo villaggio dove vedrà la madre scambiarlo per un fantasma, la fidanzata sposata con figli, gli amici non riconoscerlo. Il soldato diventa ricco ma si rende conto della vanità del possesso delle cose materiali – molto significativa e simbolica la scena in cui il diavolo gli rende il violino, che è però silente quando il soldato prova a suonarlo. Nella seconda parte il soldato decide di usare il libro per avere in sposa la figlia del re, malata e promessa a chi l’avrebbe guarita. È questa la parte più ricca di musica, in cui la principessa, guarita, danza senza soluzione di continuità un tango – brano meraviglioso e vibrante di quella sinistra atmosfera di cui tutta l’opera è imperniata – un valzer e un ragtime. Il soldato non si accontenta, insieme alla sposa decide di tornare nel suo villaggio natale, ma il narratore avverte che non si deve volere, in aggiunta a quello che si ha, ciò che si aveva prima, e non si può essere, ad un tempo, ciò che si è e ciò che si era. Così il soldato entra nel territorio del diavolo che sarà costretto a seguire, ed il sipario si chiude. Anche se complessivamente la parte in prosa supera in durata quella musicale, la musica di Stravinskij – costituita da pochi temi conduttori: la marcia del soldato, la marcia reale, le tre danze (tango, valzer, ragtime) i due corali, la danza del diavolo, per finire con la marcia trionfale del diavolo – è talmente espressiva ed intensa, da rimanere immediatamente impressa nell’ascoltatore, e caratterizza ed identifica tutta l’opera. Infatti esiste una suite concertistica con gli estratti musicali dell’opera stessa. Il compositore russo abbandona lo stile del suo primo periodo creativo, ispirato alle musiche popolari russe, molto ritmato e pieno di asprezze e dissonanze (si pensi alla “Sagra della primavera”), ma non ha ancora abbracciato lo stile del secondo periodo compositivo, il neoclassicismo. Il risultato è di una musica composta da pezzi chiusi, di assoluta trasparenza ed eleganza, ma anche di trasfigurata ironia, distacco, e con accenti jazzistici, ottenuti soprattutto grazie alla cornetta ed al trombone, derivanti dal crescente interesse per il jazz da parte del musicista russo in quel periodo. Con tale metodo compositivo Stravinskij ci racconta il dramma esistenziale dell’uomo, frutto inesorabile del destino ma anche delle sue scelte, e soprattutto la sua solitudine. È stato scritto (Pestelli) che con l’Histoire du soldat “siamo nel clima morale dell’espressionismo più nero”: è fin troppo evidente l’influsso che la grande guerra ha avuto sulla composizione.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Messina, è sicuramente meritevole di lode per il solo fatto di aver pensato di portare in scena un’opera così elitaria, intellettuale, operando una scelta coraggiosa. La versione, per la regia di Gianni Fortunato Pisani, è stata abbastanza fedele al testo, ma non ci ha convinto la scelta di ambientare la storia fra Messina e Cefalù (la vicenda è così astratta e universale che non si presta ad essere contestualizzata in ambienti specifici); non è risultata molto felice neanche la scelta di far interpretare il diavolo, ruolo tipicamente e tradizionalmente maschile, da un’attrice – se pur brava come Francesca Andò – mentre è piaciuto molto (e molto applaudito) il mimo (Carmelo Alati) che ha interpretato la versione danzante del diavolo, nell’ultima parte sui trampoli, quasi a simboleggiare la grandezza del maligno sugli umani. Bene anche Mauro Failla (il Soldato) e Erny Lamponi (la principessa, danzatrice), mentre il ruolo del narratore (Gianni Fortunato), forse doveva, con maggior distacco, limitarsi più a “narrare” che a “recitare”, magari seduto alla scrivania, come voleva Stravinskij. Ha convinto pienamente il complesso di musicisti dell’Orchestra
Giovanni Franciò