Il testo di Antonio Grosso, con la drammaturgia di Nicola Pistoia, giunto all’ottavo anno di repliche, è andato in scena presso il Teatro Vittorio Emanuele in questo fine settimana con una discreta presenza di pubblico che ha esternato il proprio gradimento. La dolente comicità, se si eccettua il finale, sembrerebbe improntata alla leggerezza nella rappresentazione della quotidianità in quei primi anni '90 in una caserma dei carabinieri di un paese siciliano ove vivacchiano alcuni militari di provenienza regionale varia fra denunce di furtarelli e richieste di licenza di caccia. I cinque appartenenti alla “benemerita” sono intenti a trascorrere la loro vita professionale nella semplicità, ove i diversivi divengono divertenti aneddoti e i contrattempi sono affrontati in un’atmosfera sempre rilassata e densa di umanità. In quella Sicilia non sembra che la mafia abbia diritto di cittadinanza, anzi in quell’avamposto del nulla che potrebbe rimandare alla Fortezza buzzatiana de Il Deserto dei Tartari la storia non parrebbe autorizzata a far menzione alcuna: quegli anonimi rappresentanti di uno Stato evanescente espletano il loro dovere cercando comunque di trasmettere sicurezza ai cittadini, certi che lì non saranno mai partecipi di avvenimenti grandiosi.
La tragicommedia muta nella sostanza con l’arrivo di un tenente, che il comando ha inviato per effettuare operazioni di verifica su un noto appartenente a Cosa nostra, che potrebbe essere in latitanza da quelle parti, fino ad un finale di ribellione a denti stretti. Tutti ricordiamo la canzone, classificatasi seconda al festival di Sanremo 1994, intrisa di mesta ironia e perfettamente centrata, del compianto Giorgio Faletti, e, a quella, l’intitolazione dello spettacolo rimanda fedelmente, e quella, come questo, esprimono – quale punto forte – una curiosità davvero purissima per la legalità portata avanti da uomini in apparenza piccoli. Si parlava di una certa ribellione, dato che tacere avrebbe significato arrendersi a ogni male, alla spietata legge di sopraffazione, ma anche alle gerarchie schiaccianti: da qui l’uso di un termine, usuale soprattutto in terra di Sicilia, che consente di alleggerire i forti contenuti della protesta, evitando di essere sottoposti a rapporto per insubordinazione. La strage di Capaci del 1992 aleggia sul finale e si comprende che sicuramente non doveva esser facile la vita di un carabiniere in Sicilia dopo le uccisioni di Cassarà, Dalla Chiesa, etc., in anni in cui la furia omicida della mafia devastava la nostra regione e l’Italia tutta. E così i grandi protagonisti della guerra di cosca restano per una volta in ombra per lasciare la scena ad una categoria di persone che rischiano le loro vite per stipendi miseri e che tante volte sono cadute vittime della follia mafiosa. Spettacolo, in conclusione, sulla sensibilità con cui si riesce di affrontare il proprio destino, scegliendo comunque di servire le istituzioni in questa terra troppe volte insanguinata.
Tosi Siragusa