L’irredimibile prevedibilità di Éric-Emmanuel Schmitt continua a diffondere i suoi fascinosi effetti sulle platee italiane, quando tutte le possibili educazioni sentimentali si tramutano con pochi tocchi nelle torbide passioni romanzesche di una Liala da tinello. Una superficialità psicologica che l’autore franco-belga esalta con il suo consueto profluvio di scene madri, agnizioni, rivelazioni improvvise e giravolte dialettiche, un continuo andirivieni di banali artifici che caratterizza la tumultuosa monotonia delle sue opere.
Anche per questi Piccoli crimini coniugali il livello di difficoltà resta paragonabile alla tabellina dell’otto evocata dal protagonista Marco Francioni (Michele Placido) nei primi minuti di spettacolo. In scena al Vittorio Emanuele un giallista smemorato che rientra a casa per riprendere possesso dei propri ricordi. La moglie (Anna Bonaiuto) lo sostiene e lo corregge con un incedere tra il farsesco e il patetico, mentre i verbosi dialoghi tentano di far luce sull’incidente domestico che ha causato l’apparente amnesia; in sottofondo fughe e riappacificazioni prima che cali il sipario sulla vicenda. Il linguaggio piccolo borghese da fiction televisiva giunge infine in soccorso per accomodare eventuali (e inconsapevoli) complessità drammaturgiche.
Cristallizzato artisticamente all’epoca dei telefoni bianchi, Schmitt lavora di addizione tra le mille stucchevolezze dei suoi elementari espedienti: gli attori, quantomeno, ne approfittano per far sfoggio della propria maestria sulle montagne russe di un lirismo lacrimevole e pedante. La sobria regia dello stesso Placido limita al minimo le possibili derive melò, valorizzando gli splendidi interni upper class firmati dallo scenografo Gianluca Amodio nell’elegante disegno luci di Pasquale Mari. Visti gli sforzi, appena il minimo sindacale: tra le macerie della nuova Caporetto drammaturgica firmata da Schmitt, interpreti e maestranze non possono far altro che muoversi come equilibristi sul filo che separa un’inutile pantomima da un dignitoso esercizio di stile.
Domenico Colosi